Quattromila anni di storia, parola per parola

Quattromila anni di storia, parola per parola.

Dagli ittiti ai romani, da Kennedy a Obama, un libro riunisce i discorsi che hanno cambiato il mondo. Con tecniche di persuasione sempre attuali. Anche nell’era dei tweet.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 13 ottobre 2017, alle pp. 130-131, è pubblicato un articolo di Andrea Marcolongo di commento al saggio di Gianluca Lioni e Michele Fina, “I grandi discorsi che hanno cambiato la storia” (Newton Compton, pp. 320).

 

Quando un essere umano decide di parlare a più di due persone, questa è politica. Nel senso greco del termine, quello più puro, ovvero il bisogno di condividere una visione del mondo per cambiarlo attraverso le idee e dunque le parole che si fanno discorso.

In un’epoca come quella attuale, in cui la politica e il relativo vocabolario si sono abbassati a becere riunioni di condominio con poche cose da dire e molte buche e cassonetti da denunciare, “I grandi discorsi che hanno cambiato la storia” di Gianluca Lioni e Michele Fina ci ricorda oggi che sono prima di tutto le parole a decidere il destino degli uomini e delle loro idee. Non imposta se sia un sovrano ittita a parlare di successione al trono, o un Papa intento a mettere la corona sulla testa di Carlo Magno, o Lorenzo de’ Medici, Montezuma, Giuseppe Garibaldi o John Fitzgerald Kennedy. Ogni discorso riportato nel libro dimostra come certe parole hanno il potere di essere reali, cioè di avere conseguenze concrete sul presente di ogni epoca, fino a diventare storia.

“Qui si fermò Alessandro”, riportava una colonna di bronzo nell’attuale stato indiano del Punjab, in India. Fu lì che Alessandro Magno dovette spronare i suoi soldati contro la paura dello straniero, del mai visto né tantomeno detto: “Io credo che per un uomo valoroso non ci sia altro termine alle fatiche se non le fatiche stesse che lo guidano a imprese gloriose!”. La risposta alla sua colonizzazione giunse 1800 anni dopo, da un mondo così sconosciuto da non essere mai neppure stato immaginato in Europa prima di Cristoforo Colombo. Sull’isola di Hispaniola, “la voce di Cristo che grida nel deserto”, il frate domenicano Antonio Montesino condannò la schiavitù imposta agli abitanti di quel mondo nuovo: “Non sono anch’essi degli uomini? Non hanno anch’essi un’anima come ogni creatura? Non avete il dovere di amarli come voi stessi? Proprio non capite? Siete forse immersi in un profondo letargo?”.

Nel 631 d.C. Maometto tenne il suo ultimo discorso. Nato povero e subito orfano, di professione carovaniere, fu solo sposando una ricca vedova che si affrancò dalla miseria. Ma, proprio come Siddharta Gautama mille anni prima, rifiutò la vita di lussi per dedicarsi alla meditazione e all’ascesi. Il risultato dell’esperienza vissuta da entrambi fu la nascita di due religioni, il Buddismo e l’Islam, segnate da due discorsi straordinariamente simili. Siddharta, a Varanasi, rivendicò che “la via di mezzo è una via luminosa, una via di serenità che conduce al nirvana”, ossia la giusta misura tra la fuga dal mondo e la ricerca del piacere. Maometto alla Mecca predicò quasi lo stesso, aggiungendo anche: “Come è vero che avete dei diritti sulle vostre donne, così esse hanno dei diritti su di voi. Vi raccomando, trattatele bene e con tenerezza poiché sono le vostre compagne e il vostro aiuto”. Testuali parole.

Il silenzio delle donne, ecco cosa colpisce leggendo questa raccolta. Su un centinaio di discorsi, sono meno di una decina quelli pronunciati da rivoluzionarie, dall’oratrice latina Ortensia all’imperatrice bizantina Teodora, la cui veste è uno “splendido sudario”; non poi così diversa da Evita Peron, la senora cui gli argentini inviavano dodicimila lettere al giorno.

Il primo uomo a sostenere la parità di genere fu John Ball, un prete del Kent detto pazzo per le sue idee. In un sermone arrivò a dire: “Quando Adamo zappava ed Eva filava, chi era il padrone?”. I parrocchiani finsero di annuire concordi, ma Ball finì impiccato pochi giorni dopo. Era il 1381. Quante volte oggi facciamo sì con il capo, e dentro di noi la pensiamo diversamente senza avere il coraggio di dirlo?

Gianluca Lioni e Michele Fina scelgono di non riportare integralmente i discorsi selezionati ma solo alcuni estratti, a differenza di libri analoghi, più datati e quasi tutti provenienti dal mondo anglosassone, dove l’ars oratoria è materia di uno studio quasi filologico. Il più celebre è “Lend me your ears. Great speeches in history”, a cura di William Safire, (sul quale mi sono formata quando ancora svolgevo l’attività di ghostwreiter, o di plume per dirla con una parola più bella, francese, cioè la penna di qualcun altro).

Se l’americano, storica firma del New York Times e ghostwriter di Richard Nixon, scelse di riportare integralmente ogni discorso, ordinato per tematiche, e di lasciare al lettore il (durissimo) lavoro di ricostruzione del tempo, del luogo e soprattutto dell’occasione in cui quelle parole furono pronunciate, in questo libro i discorsi si susseguono invece senza soluzione di continuità, rigorosamente in ordine cronologico, dal 2000 a.C. al 2000 d.C., sempre introdotti da una breve contestualizzazione al modo indicativo e al tempo presente di chi quei discorsi li ha pronunciati.

In definitiva, per citare Proust, l’effetto che si ha leggendo il libro è quello di una struggente ricerca del tempo perduto del discorso: senza mai trovarlo, perché le richieste dell’essere umano alla storia sono sempre le stesse. “O tempora, o mores”, diceva Cicerone. E i nostri tempi, sono poi così diversi?

La lettura di questo libro può a volte stordire, per la brevità dei capitoli –mai lunghi di più di quattro pagine- o per l’uso di parole così trendy da definire Babilonia una città glamour. Certo non banale, bensì ambizioso, è l’intento degli autori, che con la loro raccolta spingono il lettore a svegliarsi dal torpore di promesse destinate a diventare domani futuro anteriore o innocue frasette da tweet. E soprattutto a dare ragione a Pericle quando diceva “noi non consideriamo chi non si cura della cosa pubblica persone tranquille, ma dei buoni a nulla”.

 

                                                        Andrea Marcolongo