E’ il boia il mestiere più antico del mondo
Squartamenti, crocefissioni, persino bolliture. Un libro macabro ma istruttivo ripercorre la storia della pena di morte.
Nel “Venerdì di Repubblica” dell’8 febbraio 2019, alle pp. 96-97, è pubblicato questo articolo di Giulia Villoresi.
I contenuti di questo articolo potrebbero urtare la sensibilità del lettore. Ma magari anche soddisfarne qualche macabra curiosità. E infine fornirgli un’impressione più vivida del rapporto di confidenza, solo recentemente allentato, tra l’Occidente e la morte. L’occasione è un libro dello storico australiano Jonathan J. Moore, “Forche, roghi, ghigliottine” (Logos edizioni), resoconto completo sui modi in cui è stata applicata la pena capitale dai regni mesopotamici agli Stati Uniti di oggi. Il testo (che esce en pendant con un’altra monografia di Moore, “Pistole, pugnali e veleni”, dedicato agli omicidi più illustri della storia) non tradisce alcuna emozione: si limita a ricostruire i progressi nelle modalità esecutive della pena, soffermandosi sui problemi tecnici e operativi affrontati di volta in volta dal potere pubblico. L’effetto è talmente alienante da risultare utilissimo alla causa abolizionista.
Se oggi negli Usa (insieme al Giappone l’unico paese libero e democratico dove si applica ancora la pena di morte) le esecuzioni sono aperte ai familiari delle vittime e a qualche giornalista, nell’antica Roma si svolgevano direttamente nei teatri. Un’iscrizione trovata a Pompei annunciava: “Venti coppie di gladiatori e le loro riserve combatteranno a Cuma il 5 e il 6 ottobre. Ci saranno anche crocefissioni e la caccia alle fiere”. Di solito i cittadini romani venivano passati a fil di spada durante l’intervallo, quando il pubblico poteva scegliere se assistere o andare in bagno; per stranieri e schiavi si optava per uccisioni più spettacolari: la crocefissione (meglio se a testa in giù), il rogo o la damnatio ad bestias, nella quale il condannato veniva immobilizzato e calpestato dai cavalli o sbranato dalle fiere.
Nell’area mediorientale si prediligeva l’impalamento. Gli assiri trafiggevano da parte a parte ladri e traditori; i persiani achemenidi (550-330 a.C.) preferivano lubrificare il palo e farlo penetrare nell’ano o nella vagina (un abile impilatore sapeva preservare gli organi vitali in modo da prolungare il supplizio anche di diversi giorni). Nel XV secolo Vlad III di Valacchia inserì la variante in cui neonati e bambini venivano impalati insieme ai genitori, ma la cosa gli sfuggì di mano e l’aristocrazia romena fu costretta a deporlo. A quel tempo gli Stati germanici del Sacro Romano Impero praticavano il supplizio della ruota: il condannato veniva legato alla ruota di un carro e il boia, prima di assestare il colpo di grazia, gli rompeva le ossa una a una. Nella versione russa il colpo di grazia non c’era. La bollitura invece è stata una specialità inglese del periodo Tudor (1485-1603): qui la morte era piuttosto rapida ma a Smithfield nel 1531 un cuoco colpevole di aver avvelenato 19 persone fu messo in una casseruola d’acqua ancora fredda e per morire ci mise circa due ore. Un’altra specialità inglese, riservata ai colpevoli di tradimento, consisteva in: soffocare il reo, rianimarlo, asportargli gli organi finché era cosciente e bruciarli su una pira davanti ai suoi occhi. Sistema assai meticoloso, richiedeva la partecipazione di un professionista di straordinaria abilità.
Anche la decapitazione, nonostante l’immagine tranchant che ne ha dato il cinema, esigeva una certa competenza, non da ultimo nel decapitando, che se voleva evitare troppi fendenti doveva restare immobile per aiutare il boia a prendere la mira. Ma se il boia non era bravo (e spesso non lo era) la scure finiva per essere usata a mo’ di sega.
Solo a partire dal XV secolo si cominciarono a cercare soluzioni più misericordiose: si tratta di un processo lento, che inizia con qualche espediente originale (come posizionare sacchetti di polvere da sparo sotto le ascelle dei condannati al rogo per accelerarne la morte) fino alle grandi innovazioni del XVIII secolo. Nel 1789 il medico Joseph-Ignace Guillotin raccomandava all’Assemblea Nazionale francese la macchina che poi avrebbe preso il suo nome –la ghigliottina, naturalmente- esaltandone i risvolti umanitari: “La lama cade, la testa è tagliata in un batter d’occhio, l’uomo non è più. Percepisce appena un rapido soffio d’aria fresca sulla nuca”. A quanto ne sappiamo oggi, la decapitazione è sostanzialmente indolore, ma sembra proprio che la testa rimanga cosciente per qualche secondo, finché l’ossigeno presente nel sangue del cervello non viene consumato.
La sedia elettrica è più problematica. Negli USA fu usata per la prima volta il 6 agosto 1890 per giustiziare William Kemmler, uxoricida. Thomas Edison, che aveva contribuito all’invenzione, decise di non assistere, e fu meglio per lui perché lo spettacolo fu raccapricciante.
Invece il prototipo per la somministrazione dell’iniezione letale nasce, in ossequio al mito americano, in un garage. Quello di Fred Leuchter, figlio di un secondino della polizia penitenziaria e vero self made man, che negli anni ’70 ha rivoluzionato il settore della pena di morte mettendo su un piccolo impero di macchinari, brevetti e protocolli. Dal 1982 l’iniezione è il metodo di uccisione più comune in America. Oggi il condannato che riceve la sentenza definitiva viene trasferito in una cella dove è guardato a vista fino al momento dell’esecuzione; nell’attesa dispone di una tv personale e può avere sigarette, dolciumi e alcolici a volontà. Il giorno prestabilito viene portato nella camera dell’esecuzione su una sedia a rotelle, legato su una barella e coperto con un lenzuolo che lascia libero solo il volto; quindi si procede all’iniezione attraverso delle flebo. Nel 2018 ne sono stati uccisi 25.
Giulia Villoresi