Rasputin. Il monaco nero e l’Apocalisse della Santa Russia.

Rasputin. Il monaco nero e l’Apocalisse della Santa Russia.

Il 16 dicembre del 1916, avvelenato e trafitto dai proiettili, moriva a San Pietroburgo l’uomo che si vantava di tenere “l’Impero nelle mani”. Questo delitto fu il primo atto che porterà a Lenin e alla Rivoluzione bolscevica.

 

Questo articolo, scritto da Ezio Mauro, è stato pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” venerdì 9 dicembre 2016, alle pagine 35-37. Riporto alcune note su Rasputin, tratte dal saggio di Lev Trotsky, “Storia della rivoluzione russa”, Sugar editore, 1964, pp. 80-82: “Il fiorire dell’influenza rasputiniana si protrasse per sei anni, gli ultimi anni della monarchia. “La sua vita a Pietroburgo” –racconta il principe Jusupov, che partecipò in una certa misura a questa vita di rasputin, per poi ucciderlo- “non era più che una continua gozzoviglia, l’ubriachezza e la corruzione di un rematore da galera che ha trovato la sua fortuna”. “Ho a mia disposizione” –scriveva Rodzjanko, presidente della Duma- “un gran numero di lettere di madri le cui figlie erano state disonorate da questo impudente debosciato”. Allo stesso tempo, è a Rasputin che dovevano i loro posti il metropolita di Pietroburgo Pitrim e l’arcivescovo Varnava, che sapeva appena leggere. Su Rasputin si basò a lungo il potere di Sabler, alto procuratore del Santo Sinodo, per volere di Rasputin fu congedato il presidente del consiglio Kokovtsev che non aveva voluto ricevere il “santo vecchio” (…). Nella cerchia dello zar era un’abitudine paragonare Rasputin a Cristo e niente affatto a caso. Lo spavento di fronte alle forze minacciose della storia era troppo grande perché alla coppia imperiale bastasse un dio impersonale e l’ombra immateriale di un Cristo evangelico. Avevano bisogno di un nuovo avvento del “Figlio dell’Uomo”. In Rasputin la monarchia condannata e agonizzante aveva trovato un Cristo a sua immagine e somiglianza (…). Se per “teppismo” si intende l’espressione massima del parassitismo sociale nei bassifondi della società, si può a buon diritto definire l’avventura rasputiniana, in ultima analisi, come un affare di teppismo incoronato”.

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

Cent’anni dopo, c’è un mazzo di garofani rossi nel punto dove tutto è incominciato. Proprio qui. Salì la scala a chiocciola rovesciandosi sulla ringhiera, con la pallottola nel costato, poi si fermò sul pianerottolo. Spalancò la porta con un urlo da animale e si lanciò fuori barcollando e premendosi il petto, correndo curvo nei due gradi e mezzo notturni del cortile deserto. Chissà cosa riuscì a vedere nel buio, nell’agonia, nel palazzo che dormiva, nello splendore morente della Russia imperiale. L’ultima forza vitale lo portò verso il cancello, giù in fondo, mentre gridava il nome del suo assassino. Due spari a vuoto, due rivoltellate, lo fecero oscillare di terrore poi un colpo preciso alla schiena sembrò paralizzarlo, immobile, e subito dopo un colpo alla testa lo gettò a terra con le braccia spalancate e le mani che afferravano la neve di Pietrogrado, quel sabato 16 dicembre del 1916.

Nessuno sapeva che l’impero aveva le ore contate nella sua capitale eppure tutti gli spettri del caos si radunarono proprio qui, nel palazzo principesco, mentre cominciava lentamente a schiarire tra la nebbia che saliva dalla Mojka e sembrava come sempre fabbricata direttamente dal canale. Alla stessa ora, oggi, “Piter” è addormentata e silenziosa come allora, non c’è più il poliziotto Vlasjuk nella garitta che corre al primo sparo coi suoi stivali di feltro, dalle finestrelle del seminterrato non si allarga più nel cortile la musica americana di Yankee Doodle suonata dal grammofono dell’inganno, se n’è andato il profumo di marsala e madera della festa omicida. Soprattutto da cent’anni non c’è più Grigorij Efimovic Rasputin, il “santo diavolo”, lo “starez di Dio”, il “monaco nero” che è venuto a morire qui insieme con la dinastia imperiale, assassinato tra un sabato e una domenica nella notte sospesa sulla rivoluzione, in agguato alle porte della città magica.

Quel delitto è l’antecedente di ogni cosa perché è una vendetta e una ribellione ma anche un esercizio mistico, una specie di colpo di Stato, un sacrificio politico. E’ una predizione, un’evocazione, una rappresentazione. C’è una dinastia reale estenuata dall’autocrazia impotente dello czar Nicolaj II e dalla nevrastenia religiosa della zarina, che separano la Corona del Paese e la Corte dal suo tempo, togliendole ogni autonomia fino allo smarrimento. C’è la tempesta politica prossima ventura che si annuncia e ribolle nelle fabbriche e al fronte di guerra, pronta a ideologizzare l’anima russa appassionata, confiscandola. E c’è lui, il contadino siberiano semi-analfabeta, uomo di Dio nell’anima e peccatore nel corpo, sedicente guaritore e sicuramente incantatore, capace di coniugare fede lussuria e profezia nel fanatismo settario dei monaci “flagellanti”. Ma pronto soprattutto a raccogliere nelle sue grandi mani spalancate e negli occhi color dei fiori di lino l’angoscia da fine-di-mondo che pesava sui sovrani e sull’impero, intercettando il sentimento dell’apocalisse e trasformandolo in tecnica di regno e di governo.

Quando entrò nel palazzo degli imperatori Rasputin aveva 36 anni, la barba arruffata, i capelli lunghi, sporchi e scuri, pantaloni e stivali da contadino, giubba di tela legata con un cordone. Ma la fama di taumaturgo gli aprì le porte di una reggia abituata a trasformare la fede in superstizione devota, in un Paese in cui spesso le chiese nascono sui luoghi degli idoli pagani e San Basilio sorge nel luogo dove regnava Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. La Corte è il punto di congiunzione dei misteri e delle premonizioni che li anticipano nell’angoscia, perché è il luogo dove regna questa sospensione magica e sacra della realtà, nell’attesa di un vaticinio perenne, soprattutto da quando Alix, l’imperatrice Aleksandra Fedorovna, non riesce a dare alla Russia un pretendente maschio ma solo femmine, quattro, Olga, Tatjana, Marija e Anastasija. Ecco allora che arrivano nell’appartamento della zarina l’idiota beato Mitja, chiaroveggente scalzo, Matrjona profetessa stracciona, Darja santa pazza e bestemmiatrice, il curatore tibetano Badmajeff, monsieur Philippe occultista cristiano che quando si mette il cappello diventa invisibile, ma produce solo una gravidanza isterica, nonostante regali alla zarina un’icona coi campanelli che suonano quando si avvicina uno spirito maligno. Solo dopo un pellegrinaggio di tutta la famiglia col treno imperiale all’eremo di Sarov per pregare davanti alle reliquie di San Serafim, lunedì 30 luglio 1904 all’1,15 del pomeriggio nasce Aleksej, lo zarevic, erede al trono dei Romanov.

Col parto atteso da tutta la Russia Alix ha salvato la dinastia ma ha condannato suo figlio, perché gli ha trasmesso l’emofilia tedesca di famiglia, allora incurabile, tanto che la malattia dello zarevic viene subito circondata da un segreto di Stato malinconico e cupo protetto dal marinaio Derevenko che lo segue ad ogni passo per prevenire cadute, urti, ematomi e lividi capaci di degenerare. Finché Rasputin nell’autunno del 1907 entra nella stanza del bambino imperiale senza luce elettrica, si inginocchia come in chiesa sotto i lumi delle icone, accarezza la mano del piccolo, lo calma raccontandogli la storia siberiana del cavallo gobbo e del cavaliere senza gambe e infine annuncia ai sovrani che Aleksej crescendo guarirà completamente, vincendo la malattia. Per la prima volta Alix, l’imperatrice, si inchina a baciare la mano del santo contadino.

“Ho fatto la conoscenza di un Uomo di Dio, di nome Grigorij, della provincia di Tobolsk”, scriverà lo Zar il giorno dopo, ed è la prima traccia di un affidamento al taumaturgo delle due anime regnanti ma smarrite, e di un impossessamento graduale ma impetuoso di una sovranità esausta da parte del monaco, che in pèochi anni dalle faccende familiari passerà alle questioni religiose, agli affari di Stato, alle vicende diplomatiche, alle scelte di guerra, alle nomine dei vescovi e dei ministri. Salito al trono senza essere preparato, lo zar regna senza passione (“gli manca qualcosa nel ventre”, dice l’aristocrazia pietroburghese) rifiutando i riti di Corte, cercando rifugio e sollievo solo nella famiglia che vive ormai quasi sempre nel palazzo Aleksandr a Zarskoe Selo, dove Alix e Nikolaj erano rimasti soli per la prima volta dopo le nozze, dove lei ogni sera nel budoir avvertiva il suo arrivo nel corridoio quando il lampadario incominciava a tintinnare.

Nel castello rimbalzano le voci dei miracoli dello starez nei villaggi e nei campi, durante il pellegrinaggio che lo ha portato a Pietrogrado: ha espulso il diavolo da una monaca, ha guarito le mandrie, ha sospeso la pioggia per tre mesi. La zarina ha bisogno di sentirlo vicino, di chiamarlo quando il figlio sta male, di affidargli l’angoscia per un destino che sta declinando, di decifrare la catastrofe sconosciuta che li sta sovrastando. Quando lo Zar diventa comandante in capo dell’esercito in guerra con la Germania, lei gli affida una striscia di stoffa che l’uomo di Dio ha impregnato col suo fluido. Quando Nikolaj deve avere un colloquio delicato, gli ricorda di passarsi tra i capelli, prima, il pettine che gli ha regalato Rasputin. E attorno al castello crescono i sospetti, le invidie, le maldicenze, soprattutto adesso che lo Zar sta al quartier generale militare di Mogilev e gli affari di Stato finiscono nella stanza della zarina, con il parere, i veti e il visto di padre Grigorij.

“Tra queste dita” –si vantava Rasputin- “io tengo l’impero russo”. E aveva ragione. Come in una corte stregata, un monaco analfabeta dall’istinto animale decideva di cambiare il capo del governo, di sostituire il ministro dell’Interno, di nominare il direttore di polizia, di selezionare i candidati alle cariche pubbliche scrutandoli negli occhi, di suggerire le scelte dello Zar: “Quest’uomo è amato da Dio, puoi procedere”. “Fermati e caccialo, sento puzza di diavolo”. Con il deperimento della sovranità regale, i rovesci dell’esercito in guerra, una serie di governi che procedevano come nella favola russa il cigno, il gambero e il luccio –l’uno verso l’alto, uno indietro, uno verso il fondo- la capacità di scelta e di decisione del monaco di Dio diventava l’unica certezza. Ecco perché ogni mattina, tornando da messa ad Afonskoje Podvorje il contadino trovava l’anticamera piena di soldati, ragazze, banchieri, politici, infermi venuti fin qui in via Gorochovaja 64, passati davanti al gabbiotto della portiera Gurolevna con le spie dell’Okhrana attorno al samovar di stagno nero, saliti al secondo piano per bussare alla porta dell’interno 20 (rossa oggi come allora) con una supplica, una raccomandazione, una benedizione, la speranza di un incontro mistico e sessuale, di una guarigione.

Alle 10 suonava il telefono che troneggiava nell’ingresso come nelle case dei ricchi (numero 646/46) e c’era una lunga conversazione col palazzo imperiale. Intanto il monaco distribuiva biscotti neri che le donne portavano via come reliquie sante nei fazzoletti di seta, insieme con la biancheria di padre Grigorij che volevano lavare personalmente, e lui le baciava tre volte sulla bocca. Poi si chiudeva con una di loro nello studio, sul divano di ferro con la spalliera sfondata e coperto da una pelliccia di volpe, davanti a una sola finestra, un tavolo con due sedie, le lampadki accese sotto le icone. Qui prendeva un bigliettino con la croce dal mucchio già pronto sulla scrivania (“Fate quel che vi chiede, Cristo è risorto”) e lo consegnava alla supplicante come passepartout nel potere, in cambio di baci, carezze, sesso, denaro: o anche gratuitamente. Alle visitatrici dava appuntamento per domani, per il pomeriggio, per la sera, nelle salette riservate dell’hotel Astoria, di Villa Rodè, del Donon o di Jar o di Strelna dove la notte finiva all’alba con orge, bevute e le romanze cantate dagli zingari, immancabili. Ubriaco, ballava e raccontava la sua intimità con i sovrani, svelando quel potere arcano, superstizioso e materiale che lo faceva definire dal popolo “lo zar sopra lo Zar”.

Ciò che restava del potere istituzionale finì per ribellarsi. La famiglia Romanov era passata in pellegrinaggio da Nikolaj chiedendo inutilmente di liberare la Corona dall’umiliazione di Rasputin. La sorella della zarina, Ella, fu accompagnata in silenzio alla carrozza per aver osato criticare il Santo. Ma ormai lo scandalo di una reggia plagiata e sottomessa divampava ben oltre la Corte. Disegni osceni della sovrana con Rasputin, chiacchiere, allusioni inquietano l’Imperatrice Madre. Fino al primo giorno di ottobre, quando alla Duma va in scena l’indicibile: “Il nome della zarina viene ripetuto sempre più spesso insieme a quello di delinquenti che la accompagnano” –accusa il deputato d’opposizione Pavel Miljukov- “Che cos’è, stupidità o tradimento?”. Ancora più pesante l’attacco del deputato Puriskevic, monarchico, il 19 novembre: “Porto ai piedi del trono l’amarezza delle masse russe e dei soldati al fronte per i ministri diventati marionette in mano a Rasputin e all’imperatrice, che è rimasta tedesca sul trono russo, estranea al Paese e al popolo”.

Frastornato, braccato, il monaco contadino prova a rassicurare lo Zar con un biglietto: “Dio vi darà forza, vostra è la vittoria, vostra la nave, nessuno ha il potere di salire a bordo”. Ma lo Zar sente la pressione esterna, e anche quella interna alla famiglia dove il “Nostro Amico”, come lui e Alix lo chiamano, pesa sempre di più. “Tutti ti ingannano –gli dice in quel mese il Granduca Nikolaj Michailovic- anche tua moglie ti ama appassionatamente ma sbaglia per i perfidi inganni di chi la circonda, e quel che esce dalle sue labbra è frutto di un’abile mistificazione, non di verità”. Il 10 novembre lo Zar vede il suo nuovo Primo Ministro, Aleksej Trepov, fischiato dalla Duma in piedi. Decide di sacrificare l’odiato ministro dell’Interno Protopopov, protetto da Rasputin. Scrive alla moglie che il cambiamento è ormai indispensabile : “Solo ti prego di non coinvolgere il Nostro Amico. La responsabilità è mia e desidero essere libero nella mia scelta”. Ma Alix resiste, a difesa della santità dell’Intermediario e del suo cerchio ristretto di potere: “Ricordo ancora una volta che hai bisogno dell’acume, delle preghiere e dei consigli del Nostro Amico. Ah, caro, prego con fervore Dio perché ti illumini e ti faccia capire che lui è la nostra salvezza”. Il ministro resterà al suo posto, nelle mani del contadino.

Ma ormai circolano piani governativi, ecclesiastici, parlamentari con un unico obiettivo: uccidere Rsputin per salvare la Russia. Strangolarlo o avvelenarlo? Rapirlo e poi pugnalarlo in auto? Assalirlo a casa di una delle sue amanti? Narcotizzarlo, sopprimerlo e seppellirlo nella neve? Usare le rivoltelle di mariti gelosi e farli irrompere in casa, com’è già avvenuto? Intanto il colonnello Komissarov porta sul tavolo del ministro cinque diverse polveri velenose e ne sceglie una letale, dopo averla sperimentata su un gatto. La corda che lega insieme Zar, governo, Dio e il monaco è tesa fino all’inverosimile, sta per spezzarsi. “Finché vivrò io, vivrà anche la famiglia imperiale –prova a esorcizzare la catastrofe Rasputin, e non si accorge che è una profezia- ma con la mia fine perirà anch’essa”. E il nodo si scioglie a metà novembre, quando proprio dall’interno della famiglia imperiale nasce il progetto di morte che diventa realtà.

E’ infatti un principe-conte, direttamente imparentato con lo Zar, la mente dell’assassinio. Felix Jusupov aveva trent’anni, secondo la zarina assomigliava a un bellissimo paggio, discendeva da dignitari del Khan Tamerlano e dal camerlengo di Pietro il Grande, ma soprattutto aveva sposato Irina Aleksandrovna, nipote dello Zar. L’aristocrazia frustrata dal monaco-contadino, il suo successo in società, la vergogna delle sue orge sessuali, il pervertimento della fede cristiana, la sottomissione indecente degli Imperatori, tutto si congiungeva per Felix in un piano eroico di ribellione, vendetta e riscatto: bisogna eliminare Rasputin. Il principe cercò il nemico pubblico dello starez, il deputato Periskevic, che lo odiava per non essere diventato ministro e lo aveva attaccato alla Duma. Trovarono facilmente un’intesa, e il parlamentare arruolò il medico polacco Lazovert e l’ufficiale di cavalleria Suchotin. Il principe portò nell’operazione il suo migliore amico, il Granduca Dmitrij Pavlovic, luogotenente nel terzo reggimento di cavalleria della Guardia, in modo di garantire all’intero complotto quella speciale immunità che discendeva dai membri della Casa imperiale, svincolati dalla giustizia ordinaria, soggetti solo allo Zar.

Andarono in giro per Pietroburgo di notte e di mattino, cercando un luogo per gettare poi il corpo facendolo scomparire, trasformarono lo scantinato di palazzo Jusupov –che ancora oggi ha lo stesso pavimento di pietra, il soffitto a volta, due finestrelle basse- in una sala da pranzo con lanterne dai vetri colorati, un tavolo e un armadio intarsiato (con gioco di specchi, colonne, cassetti segreti) e un salotto con tappeti persiani, ricche tende e una pelle d’orso. Coi guanti di caucciù il dottore fece in polvere il cianuro di potassio e infarcì i petit four rosa, poi versò da una fiala il veleno in due calici di vino su quattro. Felix aveva da tempo avvicinato Rasputin, fingendo di avere dolori al petto e lasciandosi imporre le mani, e soprattutto gli disse che sua moglie Irina –probabilmente la donna più bella di tutta la capitale- voleva finalmente conoscerlo. Tutto era ormai pronto. A mezzanotte del 16 dicembre il dottor Lazovert si vestì da chauffeur e portò il principe imbacuccato in una lunga pelliccia di renna e un berretto nero a prendere il santo contadino. Salì al buio dalla scala di servizio, lo trovò vestito con una camicia di seta azzurra con disegni di fiordalisi, forse regalo della zarina. Scesero nel buio e Rasputin si appoggiò al braccio del suo assassino. Alle loro spalle, nello stipite della porta del monaco adessop è infilato un ritratto della famiglia imperiale, incrociando quei destini lungo tutto il secolo.

Irina era rimasta in Crimea, terrorizzata dal piano che la voleva come esca. Mentre il principe Feliks e lo starez scendevano dalla scala a chiocciola nello scantinato, i 4 complici al primo piano azionarono il grammofono parlando a voce alta, fingendo la coda di una festa con gli invitati che stavano per andarsene. Aspettando Irina, Grigorij prese dal vassoio del principe i pasticcini avvelenati, bevve due coppe di madera col cianuro. Forse le dosi erano sbagliate, forse i tempi erano calcolati male. Terrorizzato, Feliks lo guardava bere e mangiare senza crollare, cominciava a credere nelle leggende stregonesche, non riusciva a reggere lo sguardo del Santo e trovò una scusa per salire al piano di sopra. Prese la rivoltella del Granduca e scese, tenendola dietro la schiena. “Sto guardando questo strano armadio”, stava dicendo Rasputin in piedi di spalle. “Faresti meglio a guardare il crocefisso e dire una preghiera”, gli rispose il principe puntando l’arma. Il contadino si voltò, in tempo per urlare mentre Jusupov sparava e poi cadde a terra sulla pelliccia d’orso.

Scesero tutti, guardarono il vero padrone di Pietrogrado che agonizzava, spensero la luce e chiusero la porta a chiave. Ma poi il principe scese di nuovo, tastò il polso al monaco e con orrore vide aprirsi l’occhio sinistro, quindi il destro, fissi su di lui. E improvvisamente Rasputin balzò in piedi con la bava alla bocca cercando di afferrare il suo assassino per la gola, fino a quando strappò una spallina dalla giacca del principe, cadde a terra, si trascinò carponi sulla scala a chiocciola rantolando. Feliks gridò chiedendo aiuto, tutti uscirono, Puriskevic esplose due colpi fallendo il bersaglio, poi due proiettili (forse del Granduca, esperto di armi) centrarono lo starez alla schiena e alla testa. Incredibilmente, Rasputin era ancora vivo e allora il principe lo colpì più volte con uno sfollagente pesante, in una furia parossistica che sembrava riunire sul cadavere tutte le maledizioni di tutti i nemici per anni impotenti del monaco santo.

Lo avvolsero in un telo, legato con la fune, lo caricarono sulla limousine Delaunay-Belleville del Granduca, a ogni curva il cadavere sembrava sobbalzare e uno di loro vi si sedette sopra fino al ponte Petrovskij (ancora oggi poco illuminato e deserto a quell’ora) dove lo gettarono in un buco aperto nel ghiaccio, insieme con uno stivale che si era sfilato dal corpo in macchina. Lo trovarono tre giorni dopo. Prima una sovra-scarpa, che le figlie dello starez riconobbero. Poi il cadavere gonfio con la camicia ghiacciata nella Malaja Nevka, le mani gelate verso il cielo. Ci fu un funerale segreto davanti alla famiglia imperiale, con la bara di zinco sepolta nella crociera della chiesa in costruzione a Zarskoe Selo, dedicata a San Serafim che aveva previsto sangue e disgrazie per l’inizio del secolo russo. Oggi una croce di legno ricorda il posto, una piccola custodia di ferro piegato a mano ripara dalla neve i lumini che sembrano ardere da allora. “Che cosa posso fare? Solo pregare e pregare –dirà la zarina al marito- Anche il nostro caro Amico dall’aldilà prega per te. Quindi è ancora più vicino a noi. E tuttavia che voglia ho ancora di sentire la sua voce rasserenante e incoraggiante…”. La sentirà in sogno con l’ultima terribile profezia: “Vi bruceranno sul rogo”.

La storia e la leggenda si contendono il finale. Finché il capitano Klimov dopo la rivoluzione porta i suoi uomini nella cappella: scoperchiano la tomba, aprono la bara cercando preziosi, trovano un’icona con la firma della zarina e delle principesse e la mandano al Soviet della capitale. Poi il cadavere di Rasputin con le braccia in conserta viene trasportato in treno a Pietrogrado, camuffato nell’imballaggio da pianoforte. Un camion porta la bara sulla carrozzabile fuori città, nei boschi tra Lesnoe e Peskarjova lo posano su una catasta di legna, lo cospargono di benzina e lo bruciano tra le sette e le nove, disperdendo le ceneri nella neve e nel vento.

Ho cercato il posto del fuoco, dove l’onnipotenza del monaco diventa cenere della rivoluzione. Non riuscivo a trovarlo, la campagna russa incolta sembra tutta uguale, sul limitare indistinto del bosco che mi avevano indicato veniva il buio, interrotto dal bianco delle betulle. Poi è passato un contadino seduto sul bordo di un carro tirato da una coppia di buoi che tornavano a casa. Si è tolto il cappello, ha fatto tre volte il segno della croce. Lui sapeva, cent’anni dopo. Il santo diavolo era lì per sempre, come la Russia eterna.

 

                                                                  Ezio Mauro