Repubblica giacobina napoletana. 39° puntata. 21 febbraio-15 marzo 1800. “Mai più rivoluzione senza le masse”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Trentanovesima puntata.   21 Febbraio – 15 Marzo 1800. “Al governo della Repubblica si è trovata la borghesia intellettuale. Ancora condanne e impiccagioni. L’eredità della Repubblica si rivela contraddittoria e complessa”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

22 Febbraio 1800. Sabato.  Un commento addolorato e sdegnato. “Sarebbe lungo e doloroso uffizio discorrere a parte a parte le opere malvage dei tiranni, le commiserevoli degli oppressi; e però a gruppi narrerò molti casi spietati e ricordevoli. Morirono dei più noti del regno intorno a trecento, senza contare le morti nei combattimenti o nei tumulti: e furono dell’infelice numero Carafa, Riario, Colonna, Caracciolo, cinque Pignatelli (di Vaglio, di Strongoli, di Màrsico), ed altri venti almeno di illustre casato, a fianco ai quali si vedevano uomini chiarissimi per lettere o scienze, Cirillo, Pagano, Conforti, Russo, Ciaia, Fiorentino, Baffi, Falconieri, Logoteta, de Filippis, Albanese, Bagni, Neri ed altri assai; poscia uomini notabili per sociali qualità, i generali Federici, Massa, Manthoné, il vescovo Sarno, il vescovo Natale, il prelato Troise; e donna rispettabile la Pimentel, e donna misera la Sanfelice. Non vi ha città o regno tanto ricco di ingegni che non avesse dovuto impoverirne per morti tante e tali. Ed a maggior pietà degli animi gentili rammenterò che si vidde troncato il capo ai nobili giovanetti Serra e Riario, che non compivan il quarto lustro, ed a Genzano, che appena toccava il sedicesimo anno; per il quale si avverò fatto incredibile. Solo, di casa ricchissima e patrizia, bello di viso e di persona, speranza di posterità, morì dal carnefice; ed il padre di lui, marchese Genzano, troppo misero, o schiavo, o ambizioso, o mostro, dopo alcune settimane della morte del figlio convitò a lauto pranzo i giudici della Giunta. Altro spettacolo miserabile era la povertà delle famiglie; i beni stavano incamerati o sequestrati dal fisco, le case vòte, perché spogliate nel sacco, il credito spento nella nudità di ogni cosa, ed i soccorsi dei parenti e degli amici consumati nella prigionia e nei maneggi del processo dall’avidità degli scrivani e dei giudici. Era vietato per legge parlare ai prigionieri, o saper delle accuse, o accedere ai magistrati; ma tutto diventò venale; la pietà, la giustizia stavano a prezzo. E però famiglie agiate sino a quel giorno stentavano la vita, e spesso accattavano il nutrimento. All’amministrazione dei beni dei ribelli furono preposti uomini spietati, che in quei bisogni dell’erario incassavano le entrate, vendevano i beni, tramandavano il sostenimento delle famiglie. La vecchia principessa della… (mi sia concesso in questa età velarne il nome) viveva poveramente per la carità di un servo” (P. Colletta, pp. 384-5).

27 Febbraio. Giovedì. Nel 1799 al governo della repubblica si è trovata la borghesia intellettuale, con disegni ambiziosi ed avanzati, ma anche astratti. Un documento significativo della composizione sociale dei gruppi a cui i francesi affidano il compito di governare la repubblica è l’elenco dei condannati a morte per i fatti rivoluzionari: infatti ben 54 di essi appartengono allo strato intellettuale; vi sono poi 15 militari, 10 nobili, 10 sacerdoti, 6 impiegati. Soltanto un possidente, un negoziante, un banchiere ed un albergatore rappresentano la borghesia commerciale e fondiaria; 2 artigiani e 2 piccoli commercianti rappresentano gli strati superiori della popolazione urbana. A questa composizione sociale dei gruppi dirigenti della rivoluzione del 1799 corrispondono progetti intrisi di intellettualismo, che la maggior parte della popolazione non sente come suoi, da quello del Russo a quello stesso, più concreto, del Pagano” (A. Lepre, p. 348).

“Mai senza masse”. Una nota sulle riflessioni di V. Cuoco. “Il punto di arrivo di Cuoco supera alcune ambiguità e incertezze sul concetto e i diritti del “popolo”. Il concetto dei “due popoli” diversi per due secoli di tempo e due gradi di clima, presente in tutta la letteratura riformistica meridionale nella seconda metà del ‘700 (basti ricordare per tutti il Genovesi), partiva dalla scoperta e dalla coscienza dell’arretratezza del Paese, della miseria e dell’oppressione dei contadini, del parassitismo di Napoli; ma assume nuovo e più drammatico significato quando le tragiche vicende del crollo della Repubblica e dell’impresa sanfedistica del cardinale Ruffo rivelano, in termini di contrapposizione armata, la profondità della frattura. Uno dei motivi più originali del Saggio del Cuoco sta nell’aver preso atto con realismo di questa situazione e di averne fatto il criterio di interpretazione degli avvenimenti. Le rivoluzioni non si fanno senza il popolo; non è la filosofia che muove le masse, sono i bisogni del popolo, sono le circostanze politiche. Di qui la condanna, che può suonare anche ingiusta, della politica dei patrioti, dell’astrattezza dei diritti dell’uomo e del cittadino, di una cultura che “si era formata sopra modelli stranieri, che era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, per cui la cultura di pochi non aveva giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una cultura che non l’era utile, che non intendeva”. Se volessimo giudicare tali affermazioni di per sé, prendendole alla lettera e sottoponendole al vaglio della critica storica, non potremmo non considerarle infondate o almeno bisognevoli di molte precisazioni. La cultura napoletana, mai come nella seconda metà del ‘700, si era tanto interessata dei problemi e delle condizioni del popolo del Mezzogiorno, traendo alimento quasi “dal fondo stesso della nazione”. Gli uomini colti quindi non erano né francesi né inglesi, anche se partecipi della circolazione delle idee senza la quale non vi è cultura.

Ma l’intervento diretto delle masse popolari, dei sanculotti e dei lazzaroni, dei contadini francesi e napoletani era stato per Cuoco una esperienza e una lezione che non poteva e che non si doveva dimenticare. Da quegli avvenimenti nessuno trasse in Italia una lezione così efficace come il politico molisano, nell’ambito di una soluzione moderata e nazionale aderente allo sviluppo della società italiana. Ai grossi problemi politici posti dalla forza dell’azione popolare e dai contrasti sociali la risposta del Cuoco finisce con l’orientarsi verso un nazionalismo pedagogico. Chiamare il popolo alla difesa dello Stato e delle leggi “senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che non sa fare. Volerlo ritenere inutile, qual era prima, è lo stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine interno: debolezza perché è sempre debole quello Stato che non è difeso da cittadini: e non sono cittadini coloro che occupano col loro corpo sette palmi di terra in una città, ma nebsì coloro che contano tra i loro doveri l’amarla e il difenderla; disordine, perché le leggi e le istituzioni non hanno la garanzia se non nella volontà del maggior numero, e se questo non è istruito, o non ha volontà, o spesso ne ha una contraria alla legge”.

L’accettazione del bonapartismo da parte del Cuoco si colloca nel quadro dell’ordine nuovo che si andava realizzando in Italia e che corrispondeva alle profonde convinzioni che il molisano era venuto compiutamente maturando: stabilizzazione delle conquiste della rivoluzione sul piano delle libertà civili e costituzionali e dell’ordinamento statale, prospettive di soluzione del problema nazionale in forma unitaria o federale. Le rivoluzioni –pensava ed aveva scritto Vincenzo Cuoco- sono un momento eccezionale e straordinario, che danno risultati duraturi e irreversibili quando sono attive, quando vi è il consenso e la partecipazione popolare; ma l’esplosione rivoluzionaria, storicamente giustificabile, pone anche il problema di por fine ad essa, “de terminer la révolution”, di stabilizzare l’ordine nuovo. La partecipazione alla rivoluzione napoletana, la comprensione storica della controrivoluzione sanfedista, poi in particolare la prova dell’esilio e le riflessioni e l’impegno del periodo milanese lo pongono tra i sostenitori di un nuovo assetto nazionale per l’Italia; lo inducono a riflettere sulla forza dell’azione popolare, a studiare soluzioni per il rapporto popolo-classi dirigenti ben più articolate e complesse del paternalismo o dell’assolutismo illuminato di antico regime; ad apprezzare l’importanza sociale e politica e cosituzionale dell’opera di rinnovamento e ricostruzione delle strutture statali e dell’ordinamento giuridico. Basterebbe considerare, anche soltanto sul piano di un’indagine lessicale, il nuovo dignificato e la frequenza, nel Saggio e negli altri scritti, delle parole “nazione” e “popolo” per intendere che l’esperienza della Rivoluzione francese è base dell’originalità della riflessione cuochiana, la quale accetta come irreversibile l’assetto giuridico e sociale affermatosi nel 1789. I rilievi di astrattezza mossi dal Cuoco alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino non debbono trarre in inganno; i princìpi dell’Ottantanove nel senso dell’uguaglianza giuridica di fronte alla legge, del riconoscimento e della protezione della proprietà privata –con la conseguente abolizione degli ordini privilegiati e del regime signorile e feudale- sono il fondamento di tutto il sistema politico del Cuoco” (P. Villani, p. 8).

1 Marzo. Domenica. Napoli. La Giunta di Stato condanna all’esilio a vita, col sequestro dei beni, Ignazio Petrelli di Locorotondo; all’esilio per venti anni Ferdinando Rodriquez (già inquisito nel 1796) e Silvio Ottaviani; all’esilio per quindici anni Marco Celentano; all’esilio per dieci anni Onorato Balsano (era impresario del Real Teatro S. Carlo. Pose in iscena al tempo dei ribelli dalla metà sino alla fine di quaresima il balletto intitolato “la Partenope” con la contradanza avanti l’albero della libertà, che era dipinto in detto teatro; fece stampare per ordine del giustiziato Logoteta 200 copie del programma di detto balletto); all’esilio per sette anni Domenico Colangelo; all’esportazione dal regno de mandato Giuseppe Brancati (Filiazione dei rei di Stato, pp. 339-40).

4 Marzo. Mercoledì. Un’ipotesi storiografica. “Franco Venturi in un suo saggio del 1953 reagiva al tentativo di trasformare il giacobinismo in una categoria politica, di creare uno schema capace di comprendere le rivoluzioni moderne così come era stato ripresentato “recentemente, in una forma particolarmente sentita, negli scritti postumi di Gramsci”. Ed argomentava ulteriormente: “Proprio l’osservazione di quel che realmente avvenne in Italia quando le armate della rivoluzione varcarono le Alpi ci dimostra quanto pericoloso sia tentare di ridurre a paradigma il giacobinismo. Nel 1796 Termidoro era già avvenuto. Il club dei giacobini era già chiuso. La politica dei nostri giacobini italiani può essere capita soltanto a condizione di vederla nel quadro del Direttorio di Parigi. Meno utile il paragone con quel 1793 che in Italia non abbiamo sperimentato. Logico era dal suo punto di vista Buonarroti che voleva e poteva tentare di legare una politica robespierrista in Italia ad un ritorno di fiamma rivoluzionaria in Francia e che operò perciò nella congiura di Babeuf. Ma altrettanto logici i giacobini italiani che questo potevano al massimo limitarsi a sperare e che vanamente agirono per riprendere la via interrotta delle riforme, per abbattere il massimo numero di ostacoli, per allargare quel tanto di libertà che la situazione concedeva loro” (P. Villani, “La questione del giacobinismo”, p. 611).

6 Marzo. Venerdì. Napoli. E’ impiccato Carlo Muscari, 40 anni, reo confesso di aver servito la Repubblica da capitano; in aprile fu veduto per Toledo a cavallo e distintivo repubblicano accanto del generale Macdonald. Cresciuto in una famiglia giacobina, educato da uno zio abate filo giansenista, fu capitano delle Guardie Nazionali e comandante della seconda legione repubblicana. I fratelli Giuseppe, Mercurio e Gregorio erano stati condannati all’esilio.

8 Marzo. Domenica. L’eredità della Repubblica si rivela contraddittoria e complessa. “Cerchiamo di rispondere ad una domanda: perché è nata la Repubblica napoletana del 1799? A prima vista sembrerebbe che si sia trattato di un episodio casuale dovuto agli errori dei borbonici e alla fortuna dei francesi nella guerra rovinosa del 1798. Ma in realtà operarono, nel profondo, esigenze potenti. In primo luogo il bisogno di riforme, che era latente in tutti gli strati della società meridionale e che dalla fase dei discorsi critici era passata, sia pure lentamente e timorosamente, a quella delle realizzazioni. Nella seconda metà del ‘700 leggi e provvedimenti avevano iniziato, nel Meridione, lo sgretolamento del regime feudale: questo fatto non poteva non dar luogo a nuove, contrastanti, incontrollabili reazioni. La stessa regina si mostra presa da questa atmosfera particolare quando scrive al card. Ruffo il 23 maggio 1799, al momento cioè conclusivo dell’impresa della riconquista: “In Napoli il popolo va premiato col mettere una giustizia chiara, netta, speditiva, una polizia ben regolata… Si deve cercare di rimettere ordine nel regno… si deve riordinatre tutto, creare, rifare”. Parole che non sono di circostanza, ma che pongono in luce un’esigenza che la corte avvertiva ancor prima dell’arrivo de francesi. Altro elemento importante per la spiegazione di quanto avvenne a Napoli nel 1799 è che la Corte e l’ambiente che la circondava si erano resi conto che la struttura monarchica scricchiolava da ogni parte. Due documenti sono, a mio avviso, fondamentali: l’abulico diario del re che ignora del tutto i problemi della Corona e che si preoccupa solo della sua persona e dei suoi bisogni elementari, e la difesa fanatica del principio monarchico che fin da questo periodo, e per tutta la vita, fece il principe di Canosa.

Le vicende napoletane ebbero influenza prevalentemente nell’ambito del Regno di Napoli. Al di fuori fu facile una sorta di deformazione ottica che travolse e sconvolse tutti i dati reali dell’episodio. Così, ad esempio, i francesi assursero ad un ruolo di primo piano e i giacobini non furono giudicati per le loro idee e le loro realizzazioni ma per il loro martirio. In tal modo accanto ad Eleonora de Fonseca Pimentel salì in fama Luisa Sanfelice, una piccola borghese legata solo alla trama dei suoi amori. Fu dunque la cieca vendetta del re e di Nelson a creare un larghissimo moto di passioni e di sdegni nel quale si accomunarono uomini delle più diverse provenienze. Ma anche se non si tradussero in concreta pratica di governo, gli ideali dei giacobini meridionali fecero balenare agli italiani un ideale di vita moderna. Dalla meditazione dei fatti del ’99 sorse un momento di riflessione critica che anticipò la problematica risorgimentale. Dall’altra parte, invece, il terrore dei giacobini mescolato al ricordo di una fuga ignominiosa furono le istanze che impressero una svolta alla politica dei Borboni sino alla fine della dinastia nel 1860. La tradizione riformatrice fu abbandonata per sempre. I Borboni governarono uno degli stati più potenti d’Italia restando sordi alle voci di libertà. Per la memoria del ’99 si mantennero sempre fautori di un’autonomia ad ogni costo (nel 1821 subirono piuttosto che vollero l’intervento austriaco) che finì con l’isolarli dalla scena politica europea. Ricordando il ’99 fecero del popolo, di cui temevano l’esplosione, un vassallo addormentato dalle feste e dai canti incoraggiandone gli atteggiamenti più variamente sguaiati. L’impresa del Ruffo, infine, attuata con l’appoggio di vaste masse popolari e di piccoli gruppi di banditi, prefigurò il tentativo postunitario dei borbonici di riconquistare il regno per mezzo del brigantaggio (M. Battaglini, pp. 32-3).

13 Marzo. Venerdì. Bagnoli Irpino (Principato Ultra). Bande Sanfediste erano spedite nei Comuni dal Governo borbonico per sorvegliare le popolazioni. Perciò se il governo borbonico non perseguitò i pochi repubblicani di Bagnoli previde che costoro non avrebbero tralasciato di diffondere nel paese le nuove idee e, come in altri comuni del regno, furono qui mandati plotoni di Bande Sanfediste a carico in buona parte dell’Erario Municipale, e da un Bilancio del 1801 (conservato nell’Archivio municipale) si apprende che tal plotone era comandato dall’Alfiere Giuseppe Zoppoli, al quale il Comune corrispondea annui ducati trentasei, mentre pei Poliziotti da lui dipendenti il Comune spendea per sua parte annui ducati settantatre. La presenza nel paese di questi Sanfedisti non fu certo gradita agli abitanti e specialmente ai fautori della Repubblica, ma ripetiamo che né per tradizione orale né da alcun documento vien ricordata alcuna persecuzione contro di loro. Rileviamo invece dallo stesso Bilancio che riusciva gravosa assai la tassa Catastale, inasprita dall’altra imposta detta “la Decima”, tanto che vari cittadini furono costretti emigrare altrove, e ciò nonostante l’agevolazione, che il Comune fece col mettere a suo carico buona parte dell’ammontare di tali tasse, e col rimborsarla nel corso dell’anno a coloro che erano riconosciuti impotenti a sostenerla. Era quindi ben misera la condizione di Bagnoli in questa fine del secolo XVIII, perché pei tumulti, le sommosse e le guerre i traffichi erano impediti, ed il commercio languiva dovunque, ed anche l’industria armenti zia soffriva assai pel brigantaggio, che di nuovo infieriva, e nel Bilancio suddetto viene caratterizzato quel tempo con la parola “calamitoso e pernicioso”, per dimostrare lo stato miserando della popolazione” (Sanduzzi, p. 540).

15 Marzo. Domenica. Napoli. La Giunta di Stato condanna all’esilio a vita, col sequestro dei beni, Giovanni Battista Filomarino, principe della Rocca, gentiluomo di Camera di S. M. e decorato delle insegne dell’Ordine di S. Gennaro (tenne l’impresa del Teatro del Fondo e fece in esso rappresentare in maggio una commedia rivoluzionaria intitolata “il Timoleone”); Giacomo Filomarino, suo figlio, duca di Perdifumo; Pellegrino Planes, attore comico della compagnia del Fondo; Lorenzo Montemajor, capitan tenente di artiglieria nell’esercito borbonico; Giovanni Blanco palermitano, Stefano Patrizi (già incarcerato per quattro anni dal 1794), Luigi Macedonio tenente di vascello, Nicola Verdinois messinese, Gennaro Lanzetta; all’esilio per venti anni Ignazio Stile e Giuseppe Mastrogiovanni; all’esilio per quindici anni Giovanni Battista Cortese; all’esilio per sette anni Luigi Carafa duca di Jelsi; de mandato all’esportazione dal Regno Francesco Paolo Rinaldi e Carlo Chiarizia (Filiazione dei rei di Stato, pp. 340-9).

Nota bibliografica

  • Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800
  • Lepre, “Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento”, Editori Riuniti, Roma, 1969
  • Sanduzzi, “Memorie storiche di Bagnoli Irpino”, Dragonetti, Montella, 1975
  • Villani, “Mai senza masse”, Il Mattino, Speciale Bicentenario, Napoli, 21 gennaio 1999