Riecco Marcuse. Ha ancora qualcosa da dirci.
Ritratto di un filosofo-guru delle rivolte studentesche degli anni ’60 del Novecento. Oggi è dimenticato, ma parlò di fenomeni che continuano ad affliggerci. Criticò la tecnologia come strumento distruttivo e la cultura ridotta a merce.
Herbert Marcuse? Solo alcuni ricordano chi è stato: un filosofo ebreo tedesco, emigrato nel 1934 dalla Germania nazista negli Usa, che negli anni Sessanta del secolo scorso divenne così famoso da essere accostato a Marx e Mao Tse-tung come maestro di rivoluzione. Eppure da tempo non solo è dimenticato, ma sembra quasi innominabile.
Il fatto che oggi si riprenda a pubblicarlo (il Mulino ha riproposto “Ragione e rivoluzione”) si potrebbe interpretare così: la sociologia e la teoria politica sono in un tale stato di debolezza filosofica e di incapacità sintetica che forse i libri di Marcuse potrebbero rianimarle con la loro ricchezza di implicazioni culturali.
Rifiutato da sinistra. Negli anni del suo maggiore successo di pubblico il marxismo libertario di Marcuse, mescolato con la psicanalisi, l’ontologia esistenziale e l’utopismo estetico dell’arte moderna, non piacque molto a una Nuova Sinistra convinta che il solo e più urgente problema fosse il salto dalla teoria alla prassi, dalla conoscenza all’azione. I marxisti militanti o di professione non tolleravano che la scienza di Marx venisse ancora mescolata con la dialettica idealistica di Hegel, né con la teoria degli istinti repressi dalla civiltà formulata da Freud.
Ricordo che nel 1967 il marxista scientista Lucio Colletti, allora vicino al trotzkismo e trent’anni dopo con Berlusconi, liquidava sprezzantemente Marcuse come inattendibile e confusionario, mentre il teorico del più puro operaismo, Mario Tronti, alludeva nauseato a “gente come Marcuse, che parla della felicità e di cose ancora più sporche”.
L’uno e l’altro avevano in mente la politica, dimenticando la società. Credevano che in Marx, un secolo prima, ci fosse tutto ciò che della società bisognava sapere. Per loro il marxismo non poteva avere bisogno di correzioni e di ibridazioni, era in ogni senso definitivo e insuperabile.
Per quanto strano possa sembrare, il tema di allora era l’attualità della rivoluzione sia nell’Occidente sviluppato che nel Terzo Mondo, un’idea che dalla fine del Settecento in poi era diventata il centro magnetico e l’ossessione di ogni cultura e politica. L’illuminismo francese, il romanticismo politico, la narrativa russa, le avanguardie artistiche novecentesche e ogni utopismo e messianismo morale e filosofico avevano prospettato o presupposto l’idea di una trasformazione radicale della società e della vita. Marcuse non aveva mai smesso di mettere in conto questa grande e tumultuosa corrente culturale in cui estetica e politica, esistenza e produzione si implicavano l’una con l’altra come negli scritti giovanili di Marx.
Per questo, il sessantenne Marcuse rappresentò teoricamente i movimenti anticapitalisti e antiautoritari degli anni Sessanta più fedelmente che non i giovani marxisti neo-ortodossi. Marcuse non separava Marx e Rousseau, Freud e Weber, Schiller e il surrealismo. I neomarxisti dottrinali non vedevano altro che lotta fra classi sociali contrapposte e predefinite. Marcuse vedeva nel capitalismo avanzato una trasformazione dell’umano, una nuova antropologia unidimensionale che permetteva l’amputazione indolore di ogni prospettiva di cambiamento sia nel modo di vivere che nella dislocazione del potere. La fama di Marcuse fu dovuta soprattutto a due libri, “Eros e civiltà” (1955) e “L’uomo a una dimensione” (1964), in cui più che di proletariato si parlava di psiche e di ideologia, di tecnocrazia e di “paralisi della critica”.
Tempestivo e preveggente. Come Max Horkheimer e Theodor Adorno, i “francofortesi” con cui aveva collaborato prima in Germania e poi in America, anche Marcuse non è mai stato un pensatore politico. Quella che offriva al lettore era una diagnosi sociale e culturale, non una terapia attivistica e programmatica. L’errore prevalente dei suoi critici è stato quello di cercare in Marcuse quello che non c’era, portandoli a sottostimare la pregnanza e validità storica delle sue analisi. “L’uomo a una dimensione” è stato in realtà un libro sia tempestivo che preveggente. Basterebbe la genialità del suo titolo a orientare anche oggi una riflessione sul mondo e sul modo in cui viviamo. Vi si parla di desublimazione repressiva da cui è investita l’alta cultura, amministrata come patrimonio o democratizzata come intrattenimento di massa e risorsa commerciale. Vi si parla di tecnologia come strumento di politica distruttiva, di psicoterapie come semplici scuole di adattamento e di apparati produttivi che producono non solo merci, ma gli individui più adatti a produrre e a consumare quelle merci.
Società, cultura e esseri umani unidimensionali, universo politico bloccato da false alternative, filosofie e arti prive di forza critica e antagonistica, sono fenomeni che tuttora ci affliggono. Gli anni sessanta sono lontani, ma ancora una volta e più che in passato abbiamo a che fare con un’estrema difficoltà a far emergere tendenze sociali liberatorie e non distruttive, da sottrarre al dominio delle istituzioni e alle nuove forme di lavoro alienato. Lavoro che non è più lavoro, è sorveglianza che garantisca il buon funzionamento di macchine sempre più sofisticate e complesse.
Dove cercare oggi le energie necessarie per passare da una teoria critica della società a una politica critica? Al totalitarismo dolce, inavvertito, efficientistico e narcotico dei nuovi media informatici nessuno sembra avere l’istinto di ribellarsi. L’uomo unidimensionale del Duemila preferisce una servitù volontaria ai rischi di un’alternativa. Ma se è così, a cambiare la nostra vita sociale saranno solo crisi economiche inaspettate, emergenze sanitarie e catastrofi ambientali.
Alfonso Berardinelli
Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 23 ottobre 2020, alle pp. 100-101.