“Rigoletto” siamo noi italiani
Bamboccioni provinciali, padri ossessionati, donne fatali o sante, potenti sciupafemmine. Un saggio dimostra come il mondo portato sulla scena dai melodrammi di Giuseppe Verdi catturi ancora con spietata verità il meglio e il peggio degli italiani.
Nel “Robinson di Repubblica” di domenica 25 marzo 2018 Leonetta Bentivoglio commenta l’uscita del libro di Alberto Mattioli, “Meno Grigi Più Verdi”, Garzanti editore, pp. 156.
“- Grigi + Verdi” è la scritta che di recente un filosofico writer metropolitano ha dedicato al volto del compositore di Busseto, icona suprema di italianità. Posto su una cabina elettrica di Milano, vicino alla Scala, il graffito sintetizza verità importanti grazie a uno slogan geniale, osserva Alberto Mattioli, appassionato cronista musicale de La Stampa e autore di volumi di successo sull’opera lirica. Sostiene Mattioli che in un Paese lamentoso, caciarone e malmesso qual è il nostro sia più che mai divenuto capillare il bisogno di Meno Grigi Più Verdi, secondo il titolo di questo suo nuovo libro uscito per Garzanti (sottotitolo: “Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani”). Mattioli intende, e lo dimostra con acutezza e humour, che il creatore di Nabucco e del Ballo in maschera ha messo in luce, forse come nessun altro, una fisionomia caratteriale italica da esplorare a fondo per comprendere noi stessi e ritrovarci.
I suoi gloriosi melodrammi riflettono gli italiani con spietatezza e anche con pietà, sottoponendoci archetipi di bamboccioni provinciali, padri ossessionati dalla verginità delle figlie, sciupafemmine potenti che “comandano per fottere”, donne sante o sgualdrine. In tal senso il teatro verdiano può considerarsi uno strumento costantemente attuale per esprimere le nostre ipocrisie, debolezze e contraddizioni, insieme al nostro bagaglio di talenti. Il patrimonio di Giuseppe Verdi, della sua musica immortale, delle sfaccettature insite nei suoi personaggi, contiene un messaggio che alla speranza, il cui colore è verde, unisce il riscatto dal grigio dell’immobilità: è un monito che spinge a guardare avanti, verso una patria che potrebbe non andar perduta se avessimo il coraggio di capire chi siamo. Cioè degli inguaribili Rigoletti, delle finte oche giulive come Desdemona in Otello e dei cittadini che, malgrado i referendum, restano dei congeniti non-laici per colpa dell’irrisolto rapporto Stato-Chiesa, come insegna Don Carlo. La Storia siamo noi, segnala all’infinito il Giuseppe nazionale.
Noi siamo ciò che abbiamo deciso di essere, e siamo pure le persone che abbiamo scelto per governarci. Verdi lo sa, e non a caso ambienta l’inizio di Rigoletto nel bunga bunga della corte dell’arrogante e compulsivo Duca di Mantova, in una cena simile a quelle di Arcore. Sa quanto di cattolico respiri nella figura di Violetta in Traviata, cui tocca espiare col “sagrifizio” i suoi peccati sessuali. Sa quanto le traversie della schiava nera Aida dipendano dal seguente schema: un giovanotto di buona famiglia commette l’errore di innamorarsi della colf immigrata, invece che del mezzosoprano socialmente compatibile.
In mezzo a questi sguardi “trasversali” sui vari plot operistici, Mattioli narra la tensione verso il futuro e l’ottica sul welfare dell’illuminato e rigoroso uomo Verdi. Ne descrive gli impeti risorgimentali e le disillusioni politiche. Ne spiega (sulla base di fonti precise e indicate) le volontà riguardo al canto, oggi equivocate a causa di una tradizione impastata di pregiudizi e falsi miti. Verdi non è solo esibizione della voce ma è teatro, e chiede un equilibrio con l’attorialità. Verdi, soprattutto, è un pensiero del contemporaneo sentito non come una minaccia, ma come un’opportunità di cambiamento. Perciò, nelle regie odierne, è salutare toglierlo dalla teca delle convenzioni pseudo-filologiche per metterlo in relazione col nostro mondo. Il che non significa infilare a Violetta un paio di jeans o trasformare Otello in un vucumprà, “ma chiedersi quanto di presente ci sia dentro quel passato, e farlo vedere”.
Leonetta Bentivoglio