“Rileggere Platone per diventare cittadini filosofi”
L’allievo di Socrate si proponeva di portare al potere i sapienti: un’esigenza che resta valida, ma che oggi va reinterpretata in chiave democratica.
Nel supplemento “La Lettura” del Corriere della Sera del 16 maggio 2021, alle pp. 8-9, è pubblicato questo articolo di D’Agostini e Ferrera. I tentativi delle ideologie moderne di costruire un modello alternativo alla proposta del filosofo greco non hanno prodotto esiti felici. Il miraggio rivoluzionario comunista ha generato il dominio di una burocrazia ossificata e illiberale, mentre l’ipotesi della ricerca individuale della felicità ci ha ridotti all’essere governati dai desideri. Una beffa amara, che ha come risultato finale e come destino irrevocabile il dominio del più forte.
Gennaro Cucciniello
Si può definire platonismo in politica la tesi secondo cui i filosofi dovrebbero governare. L’ipotesi che proviamo a valutare è se l’intuizione platonica possa essere interpretata in chiave democratica, cioè immaginando che i filosofi al potere non siano una speciale classe di studiosi o intellettuali, ma tutti i cittadini. Naturalmente occorre capire che cosa significhi essere filosofi e come e perché tutti dovremmo diventarlo.
La parola filosofia, nella tradizione e in parte ancora oggi, indica un’attività intellettuale o un settore di ricerca o insegnamento, ma anche un’ipotesi antropologica, un modo in cui gli esseri umani potrebbero (forse dovrebbero) essere. Non c’è incompatibilità tra le due nozioni, ma neppure una completa equivalenza: si può essere filosofi nel primo senso (studiosi di filosofia) senza realizzare in se stessi, e neppure senza voler realizzare negli altri, l’ipotesi antropologica. L’idea di platonismo democratico si riferisce al secondo significato.
Nel parlare di filosofia al potere non parliamo dunque del potere dei filosofi come un’élite di studiosi (errore di Platone); e neppure del potere di una disciplina o scienza (errore di Hegel). Piuttosto parliamo del potere di tutti, di un popolo filosofo; se si vuole, quel “We, the people” che è l’esordio della Costituzione americana.
Come sono fatti i cittadini-filosofi? Per abbreviare i termini di una questione ampia e controversa, consideriamo che sia Platone sia Aristotele dichiararono di essere amici della verità. Incominciamo allora con l’idea che essere filosofi significhi coltivare questa speciale amicizia, con due precisazioni. Amici non vuol dire amanti. Un amico (etairos, diverso da erastés, amante) appoggia l’amico, ma non incondizionatamente. Essere amici della verità non significa chiedere verità a ogni costo, e preferire il valore verità a ogni altro valore; significa tenerne conto con attenzione, come si fa con gli amici. Inoltre, come gli antichi filosofi, stiamo parlando del concetto di verità, ossia della funzione concettuale che ci serve per collegare ciò che diciamo o pensiamo alla realtà, escludendo il falso, l’inganno, l’errore. Non stiamo parlando dunque dei contenuti veri, e neppure di ciò che è vero nel senso della realtà così come è, ma del sì e no con cui accettiamo o rifiutiamo tesi, opinioni, credenze.
Le ragioni per cui dovremmo coltivare l’amicizia con l’antico concetto sono pratiche più che morali. Trascurare o violare la verità è come guidare ad alta velocità passando con il semaforo rosso; può andare bene, si fa più in fretta, ma il rischio è alto. Un politico o un parlante pubblico che viola o dimentica la verità è come qualcuno che passa con il rosso guidando un pullman carico di gente. Va veloce, ma rischia molto e rischiano le persone con lui. In una comunicazione iper-democratizzata, l’attenzione a dire-pensare il vero diventa essenziale: una situazione di grande traffico in cui i semafori non vengono rispettati è un suicidio collettivo. In più, essere attenti alla funzione-verità è essenziale se dobbiamo decidere. Se quel che pensiamo è falso, le conseguenze sono disastrose per tutti, perché noi siamo we, il popolo sovrano.
In pratica, essere filosofi non significa aver studiato una grande quantità di filosofia, ma esercitare l’arte della verità. Dovremmo diventare amici del concetto di verità come un artista è amico del suo materiale. Uno scultore sa che il suo materiale è insidioso, ne è amico, ma ne conosce l’ambiguo potere, e sa che può sbagliarsi nell’usarlo. Tutti i filosofi sanno che nell’usare il concetto di verità incontriamo molti rischi e difficoltà: paradossi, teorie incerte difese dogmaticamente, conflitti insanabili. Più spesso crediamo di essere grandi artisti del vero, ma siamo mediocri dilettanti. Essere consapevoli di questo autoinganno ed evitarlo sistematicamente è ciò che distingue l’esercizio filosofico della verità.
Molte persone hanno talenti naturali, sono amiche della verità in modo immediato e intuitivo. Ma noi tutti (filosofi professionali inclusi), impegnati nella dialettica democratica, dovremmo perfezionarci nell’arte della verità. Il primo passo è semplice, è il principio del popolo legislatore: la téchne filosofica incomincia quando si impara a pensare in termini di noi. Non si pensa filosoficamente se non si pensa in modo universalistico, in termini di umanità. E’ questa la prima regola. Non sono in grado di esercitare l’arte del vero, se mi limito al qui e ora dei miei personali interessi e bisogni. Non sono in grado di vedere anche la più semplice evidenza, se mi mantengo a quel che credo e che so. Non sono neppure in grado di vedere il potere della verità (il semaforo rosso) se non ho questa capacità di trascendimento, che ha caratterizzato la filosofia in ogni tempo.
Il platonismo democratico richiede un modo diverso non solo di partecipazione alla politica, ma anche di governo della politica. Secondo la nota definizione di Abraham Lincoln, la democrazia è governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. La sovranità appartiene alla comunità dei cittadini. Da parte del popolo significa che i cittadini si autogovernano tramite rappresentanti. Per il popolo significa che i rappresentanti eletti devono decidere nell’interesse collettivo.
La rappresentanza differenzia la democrazia dei moderni da quella degli antichi. Nell’Atene di Pericle, a parte la schiavitù e l’emarginazione delle donne, la democrazia era diretta, ma le proposte su cui votare nell’assemblea erano formulate da un’esigua minoranza di oratori, che sapevano suggestionare l’uditorio. Dicendo qualche verità, ma anche molte menzogne. La retorica è arte della persuasione, non della verità. Fu la delusione per quel tipo di democrazia a spingere Platone verso la sua visione di repubblica: il governo dei re-filosofi.
Per evitare queste degenerazioni, i moderni hanno inventato la rappresentanza. Tale nozione si afferma con il costituzionalismo liberale, con la rivoluzione americana, con Stuart Mill e la dottrina del suffragio universale, con il “Discorso agli elettori di Bristol” di Edmund Burke. E, fra i pensatori contemporanei, si sviluppa con Robert Dahl, Norberto Bobbio e Giovanni Sartori. Il popolo elegge i propri rappresentanti, che decidono in sua vece.
Come si riconosce l’interesse collettivo? Il filosofo che ha più insistito su questo aspetto è Rousseau. Il suo pensiero viene oggi però usato in modo fuorviante. Il bene comune non esiste in sé e per sé, ma va costruito attraverso una discussione disciplinata da procedure, che coinvolge tutti, ma primariamente i rappresentanti eletti. Questi devono essere sì ricettivi rispetto alle opinioni dei cittadini, ma anche responsabili, in modo da risolvere con cognizione di causa i problemi collettivi, le emergenze improvvise (pensiamo al Covid). Per riprendere una metafora usata più sopra: i cittadini devono rispettare i semafori, ma sono i politici al governo a decidere dove collocare questi semafori; se non lo fanno correttamente, i semafori non servono, oppure possono fare anche danni.
Che ruolo ha la verità in tutto questo? Nel discorso inaugurale, gennaio 2021, il neo-presidente americano Biden ha chiarito lucidamente il punto: “C’è la verità e ci sono le menzogne. Bugie raccontate per il potere e per il profitto. Ed è dovere e responsabilità dei cittadini e dei loro rappresentanti difendere la verità e sconfiggere le menzogne”. Alla definizione di Lincoln, Biden propone dunque un ‘aggiunta in direzione chiaramente platonica: cittadini, siate filosofi, io da parte mia vi prometto che sarò amico della verità! L’appello riguarda in fondo l’incompletezza delle garanzie liberali nella fase politica che stiamo oggi vivendo. Secondo Stuart Mill, è proprio la garanzia di potersi esprimere liberamente a far emergere la verità. Ma il mercato delle idee per Mill non era certo il governo da parte della doxa, delle opinioni basate su istinti, impressioni, su ciò che sembra o appare. La verità è il non-falso, la credenza che sconfigge l’errore perché ha un legame con il mondo, con il potere del come stanno le cose: il platonico ta onta os esti.
Di fronte all’odierna emergenza-verità è opportuno aggiornare le garanzie liberali includendo un nuovo insieme di diritti aletici (?) nella sfera dell’istruzione, dell’informazione, della scienza. Non per stabilire quali sono i contenuti veri, ma per fornire nuovi strumenti. Per renderci capaci di riconoscere ciò che è falso o ingannevole nelle nostre o altrui opinioni.
In conclusione proponiamo una definizione. Il platonismo democratico è una forma di governo –di organizzazione e di vita politica- in cui il popolo che detiene la sovranità è un popolo-filosofo, amico del concetto di verità, e capace di usarlo per realizzare beni politici comuni. E’ una democrazia in cui i rappresentanti del popolo-filosofo governano secondo verità, evitando e sconfiggendo le menzogne. Ed è una democrazia capace di scoprire e realizzare –nei modi imperfetti di questo mondo- l’interesse generale della comunità, senza violare la dignità e la libertà delle minoranze, e di nessun singolo cittadino o cittadina.
Franca D’Agostini Maurizio Ferrera