Rosso Fiorentino, “Deposizione di Cristo dalla croce”, 1521, Volterra, Pinacoteca
La committenza.
Cinquecento anni fa, nel 1521, periodo drammatico nella storia d’Italia perché la penisola era corsa e saccheggiata dalle truppe francesi e spagnole, un giovane pittore fiorentino, Giovanni Battista di Jacopo (1495-1540) –detto Rosso dal colore dei capelli- viene incaricato dalla Confraternita della Croce –una Compagnia di Flagellanti- di Volterra dell’esecuzione di una “Deposizione dalla Croce”. E’ questa una delle sue opere più ammirate, vertiginoso punto d’approdo della sua irrequieta ricerca giovanile, di cui la grande tavola (343 per 201 cm) conserva qualche traccia in “quelle arie crudeli e disperate” che avevano spaventato i suoi stessi committenti, quei Flagellanti che attribuivano al dolore e alla sofferenza un fondamentale valore spirituale. La disperazione invitava i fedeli a meditare sulla morte di Gesù e sul suo significato di salvezza spirituale per l’intera umanità.
Descrizione dell’opera.
La pala si presenta come una macchina scenica grande e complessa, aggrovigliata e bizzarra, impaginata su un solo piano per far risaltare meglio i movimenti guizzanti delle figure in contrasto con la geometria astratta delle scale e della croce. Rosso colloca l’evento sacro in uno spazio vuoto e astratto, caratterizzato da uno sfondo blu, che concorre ad accentuare il senso tragico e spettrale della scena, rielaborando suggestioni riprese da vari artisti, soprattutto da Michelangelo. In basso a destra si trova la massa compatta di Giovanni che piange, atteggiato come l’Eva cacciata dal paradiso terrestre della Cappella Sistina, sconvolto dal dolore e totalmente immerso nella sua pena. Accanto a lui c’è la Maddalena, in ginocchio ai piedi della croce, che esprime la sua disperazione abbracciando le gambe della Madonna, la quale, a sinistra, sul punto di svenire è sostenuta dalle pie donne. Al centro ci sono gli uomini sulle scale e che dalla croce raccolgono il corpo di Gesù: nella mimica mostrano tutta la loro agitazione. Il vecchio Nicodemo è affacciato e si sporge dal braccio orizzontale della croce.
I gesti dei personaggi tendono a separare in due parti la composizione. Nella parte alta le figure si muovono come acrobati sugli attrezzi, disposti sulle scale secondo il principio, tipicamente manierista, della linea serpentinata: la mimica vivace dei loro gesti, con la loro inclinazione e disposizione, è tutta rivolta a privilegiare la figura di Cristo (con una ripresa della Pietà michelangiolesca di San Pietro); i loro movimenti appaiono tutti impegnati nello sforzo fisico di schiodare, sollevare e portare a terra il corpo morto di Gesù; anche i loro sguardi sono tutti rivolti verso la spoglia divina. In bilico sulle scale i soccorritori calano il cadavere illividito di Cristo, in un turbinio di mantelli, gesti concitati e ceffi grifagni. Il corpo livido di Gesù viene fatto calare dalla croce in modo alquanto maldestro. Quattro persone, salite su tre diverse scale a pioli, si agitano incongruamente, come per un macabro balletto. Io penso che Rosso volesse riprendere una scena consueta che si ripeteva nelle rappresentazioni del Venerdì santo nelle chiese, quando dei confratelli volenterosi delle confraternite si adoperavano per ripetere la scena del Golgota. Da piccolo (erano gli anni Cinquanta) ero chierichetto nella mia parrocchia di Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino; il venerdì santo, dopo le tre ore di predicazione e di meditazione che commemoravano l’agonia e la morte di Gesù, allo spirare di Cristo il sagrestano e altri addetti mimavano i rumori di un terremoto. Dopo alcuni minuti, mentre i fedeli erano raccolti in tristissima preghiera, alcuni di loro salivano su lunghe scale (proprio come nel quadro del Rosso), con colpi di martello schiodavano le mani e i piedi di Gesù, e poi allungavano delicatamente la statua –avvolta in un lenzuolo- su un tavolato al centro del presbiterio.
Nella parte bassa, invece, l’attenzione dei personaggi non è puntata sul cadavere né al lavoro manuale, ma si pone come un compianto sulla morte. La figura femminile sulla sinistra sostiene il dolore di Maria, ma volge lo sguardo verso l’esterno del quadro, segnalando allo spettatore la pietà della scena; Giovanni, a destra, chiuso nel proprio dolore, si dispera per la perdita irreparabile.
Il ritmo costante dei gradini della scale, infine, mette in rapporto le due zone della pala. Tutta la struttura compositiva, d’altra parte, si impernia su un sistema di coordinate ed è dominata da parallelismi e consonanze formali: si vedano le due scale appoggiate a destra e a sinistra della croce, esattamente nello stesso modo, ma in rapporto inverso col piano del quadro; i due uomini simmetricamente collocati sulle scale con invertita la posizione della gambe, la consonanza lineare nelle due donne che assistono la Vergine, la corrispondenza (clamorosa) tra Nicodemo, in alto, chino sul braccio orizzontale della croce e la Maddalena, in basso, che si slancia verso le gambe di Maria, quasi distesi entrambi su tutta l’ampiezza del quadro. Fendenti di luce, che piovono dall’alto come fari di scena, intagliano i volti e i panni dei dolenti, scheggiando forme potentemente sintetiche, che hanno indotto gli storici dell’arte di primo ‘900 a parlare di Cubismo. In realtà, oltre a espliciti omaggi a Masaccio e a Donatello, Rosso getta uno sguardo retrospettivo che si spinge fino al Medioevo, ispirandosi alla duecentesca Deposizione lignea, tuttora conservata nel Duomo di Volterra.
L’autore sfrutta il formato verticale della tavola per spingere al limite le proporzioni delle figure; nello stesso tempo le taglia con rigidità, come lavorandole con un martello nel marmo o sbalzandole nel legno. Le loro vesti –in particolare quelle di Giovanni, della Maddalena e della prima delle pie donne- sono definite da linee affilate, rotte in angoli acuti a formare spigoli taglienti, trasformate in prismi sfaccettati. Inoltre Rosso caratterizza le loro fisionomie esagerandone l’espressione di stupore, sofferenza, dolore: per questo ricorre a tipologie stravaganti, abnormi, quasi caricaturali (vedi il volto di Nicodemo, derivato da un’incisione di Durer). E’ spinta al limite anche la gamma dei colori, innaturalmente intensa, fatta di tinte rare inusitate, che coi suoi toni chiari, aspri e un po’ striduli, raggiunge effetti bizzarri e spettrali. Non vi sono chiaroscuri o altri effetti e passaggi intermedi, ma solo colori brillanti che accentuano e isolano le figure individuali. Riporto un commento di Hauser: “questa Deposizione appare come una immane ginnastica di figure tesa a dare tutto il senso di sospensione di vuoto, di assurdità. Segna una tappa fondamentale verso la costruzione astratta, l’abolizione dello spazio, l’assenza di realismo, la tendenza all’intellettualizzazione delle forme, dati che caratterizzeranno tutta la sua opera successiva”.
La realtà storica italiana.
Questi giovani pittori vivono in una penisola italiana che ha ormai perso la centralità in Europa…. In questo primo trentennio del XVI° secolo si stanno svolgendo in parallelo due fenomeni contraddittori, che sono da una parte la crescita e il consolidamento delle grandi monarchie nazionali europee, dall’altra la cristallizzazione della frammentazione dei diversi Stati regionali italiani. In più, molti di questi principati italiani avevano un’organizzazione statuale fragile, con al vertice dinastie improvvisate e prive di radici profonde. Così l’intervento degli Stati stranieri in Italia, che all’inizio aveva avuto ancora una forma episodica e avventurosa, era diventato negli anni successivi sistematico e duraturo. Già nel 1503 la Francia e la Spagna si erano installate solidamente sul nostro territorio, l’una impadronendosi del ducato di Milano, l’altra del Regno di Napoli. Fra il 1508 e il 1509 la guerra della Lega di Cambrai, incautamente promossa dal papa Giulio II, aveva dato un colpo definitivo alle capacità espansionistiche del più fiorente allora tra gli Stati italiani, la Repubblica di Venezia, che da quel momento fu costretto a chiudersi in una prudente politica di non intervento per salvaguardare la propria stessa sopravvivenza. Così i principi italiani cercano di barcamenarsi fra i potenti contendenti stranieri, ma mostrano chiaramente di essere in loro balia. Nel 1527 Roma viene messa a ferro e fuoco dai lanzichenecchi di Carlo V inviati a punire l’adesione del papa Clemente VII Medici ad una lega filo francese; nell’agosto 1530, dopo lungo assedio, le milizie imperiali entrano a Firenze ed impongono il ritorno dei Medici, che ne erano stati scacciati tre anni prima, e soffocano definitivamente ogni anelito dell’antico spirito repubblicano e comunale. Michelangelo abbandona definitivamente Firenze e si rinserra a Roma, Pontormo si isola in una sua prolungata pazzia, Rosso Fiorentino se ne va in Francia…
Gennaro Cucciniello