Rovigo (quasi Galles). L’Italia del rugby.

Rovigo (quasi Galles). L’Italia del rugby.

La città celebra in una mostra l’epopea di uno sport che qui trova una nuova declinazione eccezionale (difesa del territorio).

 

Il 21 marzo 1935 la Nazionale campione del mondo di calcio di Vittorio Pozzo, in viaggio verso l’Austria, fece tappa a Rovigo dove giocò un’amichevole contro la squadra della città al campo di via Tre Martiri. Fu il giorno più glorioso del calcio rodigino. Ma quello successivo, o lo stesso perché la questione è dibattuta, alla stazione scese Davide Lanzoni, studente di Medicina a Padova. Sotto l’impermeabile aveva un pallone ovale chiesto in prestito ad alcuni padovani, compagni di corso all’università. Il 22, o il 23, ma c’è chi assicura fosse un venerdì, Lanzoni e altri 12 ragazzi si ritrovarono attorno a quel pallone nel primo tentativo di giocare a rugby, sport del quale nessuno conosceva le regole base, figuriamoci le raffinatezze.

Cominciò così, quasi per caso, ma funzionò benissimo. Era, il rugby di Rovigo, diverso da quello che giocavano da un secolo gli anglosassoni ma anche da quello che da una decina d’anni si giocava a Milano, Roma, Torino, Padova. Quei ragazzi, però, non lo sapevano e, continuando a non sapere, codificarono il loro rugby, perfetto per quello che erano loro e per quello che era allora Rovigo. Poca tecnica (gli allenatori non esistevano e pure delle regole si sapeva poco), tanta passione e lo spirito di sacrificio di chi nella vita deve guadagnarsi ogni cosa, anche la più semplice e scontata. Il gioco nato per formare la classe dirigente dell’impero britannico, che si praticava nelle scuole più esclusive, a Rovigo era declinato più o meno così: difesa del territorio, della terra, un concetto che un contadino capiva benissimo, senza bisogno di riunioni per studiare sofisticate strategie.

Placcavano, soffrivano e non mollavano mai. E vincevano. Nel 1939 il gruppetto dei 12 di Lanzoni più altri che si erano aggiunti, perché quel gioco non era poi così male, conquistò il titolo Gil, il campionato nazionale giovanile. E per una città che non era per niente abituata a vincere fu un evento clamoroso, inaspettato e bellissimo. Da quel momento tra Rovigo e il rugby fu amore, vero e assoluto. La squadra che vestiva il rossoblu (fu ovviamente Lanzoni a provvedere: si fece regalare una muta di maglie del Bologna da alcuni calciatori che aveva conosciuto in vacanza a Cesenatico) diventò la bandiera della città, l’orgoglio di tutti.

Dopo la guerra tornò a casa Mario Battaglini, detto Maci (da Maciste). Era il più dotato, aveva giocato a Milano, si era fatto la campagna di Russia e poi tre stagioni in Francia. E con lui arrivarono i primi scudetti: quattro consecutivi, dal campionato 1951 al 1954. Rovigo, la Città in mischia raccontata nel libro di Luciano Ravagnani, aveva messo sotto tutti, aristocratici, ricchi, veri o presunti detentori delle chiavi del gioco. Ma a Rovigo non può andare sempre tutto bene e la stagione 1951-52 fu anche quella della tragica alluvione. Il 25 maggio 1952 il presidente dei rossoblu Nino Suriani prese carta e penna e scrisse una lettera al prefetto. “L’alluvione ci ha devastati e impoverito, c’è chi ha perso il lavoro, la terra e anche i ragazzi che hanno vinto lo scudetto se la passano male. Se fosse possibile dare una mano…”. Il giorno dopo il prefetto staccò un assegno di 100mila lire perché i tempi erano durissimi, ma per i Bersaglieri rossoblu qualcosa si doveva comunque fare.

Da allora il rugby a Rovigo visse momenti felici e bui, raccontati nella mostra “Rugby. Rovigo città in mischia”, cheb resterà aperta a Palazzo Roncale fino al 29 gennaio 2023. Ma il legame tra la squadra e la città rimase forte, solido come la roccia, e il Battaglini, lo stadio che porta il nome del leggendario Maci, è ancora oggi il luogo di culto più frequentato. Soltanto a Rovigo nei bar si parla di rugby e non di calcio, soltanto a Rovigo quando la squadra vince scendono tutti in piazza a festeggiare. Succede, là in mezzo al Polesine, quello che succede in Galles, dove il 60% della popolazione maschile ha giocato almeno una vera partita e dove, si dice, tutti i bambini (e le bambine) sono stati concepiti su un campo di rugby o nelle immediate vicinanze.

A Rovigo arrivarono i grandi tecnici, il francese Julien Saby che spezzò il pane della tecnica, il gallese Carwyn James, allenatore anche dei Lions britannici, il sudafricano Nelie Smith, condottiero degli Springboks. Proprio con il Sudafrica si stabilì il legame più profondo. A Rovigo giocò Naas Botha, il miglior mediano d’apertura al mondo della sua epoca e un calciatore come non se ne erano mai visti (e non è che se ne siano visti molti del suo livello anche dopo il suo ritiro). Potevano andare ovunque, ma finivano a Rovigo che era il centro del rugby nazionale, dove gli azzurri giocavano spesso, dove il rugby si respirava in ogni angolo.

Una storia unica, che continua perché la passione è quella e non passa. Perché il Rovigo (insieme al Petrarca Padova) non è mai stato in serie B e ha vinto tredici scudetti che potrebbero essere stati molti di più se tante finali fossero andate per il verso giusto. La storia di una città e di un gruppo di ragazzi che si sono innamorati del pallone sbagliato e senza saperlo hanno influito pesantemente sullo sviluppo di un gioco che non sembrava adatto a loro. Ma questo, per fortuna, nessuno glielo ha mai spiegato.

 

                                                                  Domenico Calcagno

 

L’articolo è stato pubblicato ne “La Lettura” del 6 novembre 2022, a pag. 43, supplemento culturale del Corriere della Sera.