Saffo (640-570 a.C.), “Amore pubblico e dramma privato”
Frammento 31 Voigt, 590-570 a.C.
Mi sembra uguale agli dei
l’uomo che ti siede di fronte,
e da vicino ascolta la tua
voce dolce,
il fascino del tuo riso. A me questo
sconvolge il cuore nel petto;
ti vedo appena e non mi riesce
più di parlare,
la lingua si spezza, un fuoco sottile
mi corre sotto la pelle,
gli occhi non vedono più, le orecchie
rimbombano,
mi prende un sudore gelido, mi
afferra tutta
un tremito, e sono più verde
dell’erba, e sembro a me stessa vicina
a morire.
Ma tutto si può sopportare (…)
(traduzione di Guido Paduano)
E’ il testo forse più famoso della lirica greca, mille volte imitato e tradotto nel corso dei secoli; considerato, nella vulgata comune, la poesia fondante dell’intensità amorosa, il manifesto della sensibilità femminile, l’inno alla gelosia lesbica. Lui, l’uomo, quello là, strappa la ragazza alla poetessa –che reagisce con disperazione psicosomatica, invidiando il fortunato e sentendosi vicina a morire. Ogni innamorato infelice vi si identifica e ammira la potente semplicità con cui la sofferenza erotica è espressa, una volta per sempre.
Ma guardando le cose più da vicino il quadro si scompone e si rivela molto diverso. A Mitilene, nell’isola di Lesbo, Saffo era sacerdotessa e istitutrice di un’associazione insieme cultuale e religiosa, detta tìaso; in questa specie di scuola, o noviziato, si radunavano giovani aristocratiche per prepararsi a un degno matrimonio. L’educazione era imperniata sull’eros e la poesia (il tìaso di Saffo era dedicato ad Afrodite e alle Muse) oltre che sulla danza, l’abbigliamento eccetera. Un po’ come accadeva nell’India antica, il sesso costituiva parte integrante della religione; come risulta anche dalle liriche corali di Alcmane a Sparta, i rapporti omosessuali delle ragazze con la “maestra”, o delle ragazze tra loro, erano istituzionali: né proibiti né segreti. La lirica monodica, a cui la poesia di Saffo appartiene, era un componimento che l’autore (o l’autrice) eseguiva in pubblico accompagnandosi con la lira; il pubblico poteva essere o quello ristretto delle ragazze del tìaso, o quello più allargato delle feste cittadine (per esempio, le cerimonie nuziali o pre-nuziali). Nessuna intimità, quindi.
Essendo composti per un gruppo ristretto, i testi non avevano bisogno di precisare cose che tutti sapevano; il “lui” dei primi versi è probabilmente lo sposo venuto a incontrare per la prima volta la sposa promessa. Situazione canonica, niente di speciale. La sacerdotessa-istitutrice elenca i sintomi della sofferenza del distacco, per sottolineare quanto la ragazza da lei formata sia diventata bella e preziosa e quanto ci guadagni l’uomo a sposarsela (per ogni matrimonio, laute prebende venivano lasciate alla scuola-tempio). Il riso seducente è un marchio della scuola se Alceo, conterraneo e quasi coetaneo, chiama Saffo “divina” e “dolce-ridente”. Una forma di pubblicità, insomma; oltre che una dimostrazione della potenza di Afrodite e dell’irresistibilità dell’eros. Tutti i sintomi che vengono elencati sono quelli che si ritroveranno nella medicina ippocratica: l’amore come malattia sacra. Il testo è frammentario, non sappiamo come continuava; l’ultimo verso che ci è giunto fa pensare a un ragionamento del tipo “ma tutto si deve sopportare perché è giusto così, il matrimonio è l’esito doveroso dei giochi di bellezza e seduzione che qui si sono consumati”. Un semplice gioco delle parti dunque, uno spot convenzionale e sostanzialmente finto?
Non è quello che dice la tradizione, e non è quello che ci diciamo noi se rileggiamo il testo con disponibilità di cuore. L’anonimo autore del trattato “sul Sublime”, grazie al quale il frammento si è conservato, lo cita come esempio straordinario di scelta degli elementi significativi e di genio nell’armonizzarli; anche ammettendo che i sintomi d’amore, presi uno per uno, fossero luoghi comuni, Saffo li ha messi tutti insieme ed è come se si auscultasse da fuori. Le iperboli sono solo sue: la lingua che si spezza, il diventare più verde dell’erba. Come la lingua, è il ritmo stesso che si spezza, nella mancata coincidenza di metrica e sintassi (per esempio, al v. 5 e al v. 9); oltre di Afrodite, era anche sacerdotessa delle Muse, maestra nel maneggiare endecasillabi e adonii, e l’orgoglio della forma le era tutt’altro che sconosciuto. Il “phainom’ em’ autai” (sembro a me stessa) del v. 15 riprende esplicitamente il “phainetai moi” (sembra a me) del v. 1: là la citazione era omerica, il futuro sposo appare beato come un dio –nella ripresa Saffo riflette su se stessa e sulla propria dissociazione. L’energia visiva dell’inizio, il corpo della ragazza risolto in dinamismo e azione, sprofonda nell’autoanalisi di un corpo-io tutto fisiologia e percezione mentale. Non c’è stereotipo che tenga: molte saranno state le maestre di tìasi, ma Saffo è unica.
Il che comporta che a un certo punto lei dev’essere uscita dal ruolo: qualunque senso si possa dare alla parola “sincerità” in una cultura così estrovertita come quella classica greca, siamo costretti ad ammettere che Saffo soffriva sinceramente. O, per meglio dire, che è riuscita a trovare letterariamente un equilibrio tra ritualità sociale-religiosa e psicologia personale, trasformando in memoria vissuta l’avvicendarsi promiscuo delle ragazze. Per le allieve doveva essere una di quelle maestre che appaiono strane, ma che proprio per questo non si dimenticano più. La lirica greca è stata sopravvalutata, avvantaggiata dall’aura delle rovine; la sua decantata “ingenuità” è l’illusione ottica dovuta alle caratteristiche della ricezione –ma è con quella musica di lira che l’Occidente ha imparato a scavare nella parole di tutti per cercare la Parola.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 11 maggio 2014, p. 52