Saint-Just, la rivoluzione con l’orecchino
Lo portava oppure no? Era bello come lo dipinsero? Idealista o fanatico? Morì ghigliottinato a 26 anni, insieme a Robespierre.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 23 ottobre 2020, alle pp. 103-105, è stato pubblicato questo articolo di Marco Cicala.
Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato nella Parigi del Terrore poche settimane prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione divenendone il più giovane tra i deputati. La sua impressionante traiettoria rivoluzionaria si consuma dunque in meno di 23 mesi. E, compressa dentro un arco temporale tanto angusto, finisce per attorcigliarsi fatalmente in un enigma. Una matassa che lo scrittore Stenio Solinas cerca ora di sbrogliare in “Saint-Just. La vertigine della Rivoluzione” (Neri Pozza), raffinato profilo biografico-politico e impresa valorosa. Perché sulla figura dell’Arcangelo della ghigliottina si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende –agiografiche o denigratorie- in mezzo alle quali è difficile raccapezzarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un’aura di mistero.
Ammesso che la famosa bellezza del ventenne Saint-Just non sia anch’essa un’invenzione romantica, che tipo di bellezza era? Ieratica? Tenebrosa? Femminea? Virile? Portava l’orecchino oppure no? Interrogarsi sulla controversa bellezza del personaggio –come fa Solinas analizzandone le effigi- non è un esercizio voyeuristico. Giacché rimanda alla dimensione nella quale sta sepolta la chiave del rebus Saint-Just, e che è quella della sua giovinezza. Una giovinezza che, sebbene presto troncata dalla mannaia, gli lasciò comunque il tempo di vivere parecchie vite: da poetastro a tribuno incendiario e terrorista di grido, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica flemma.
Insomma, un proteo che in nemmeno due anni di militanza ipercinetica salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l’hanno incastonato nel firmamento dei maledetti alla Villon, De Sade, Rimbaud, Genet… Invece Solinas vi riconosce una sorta di prototipo dell’esteta armato, figura di poeta-combattente cara a certa intellighenzia inquieta nella prima metà del ‘900.
E tuttavia, l’ineffabile Antoine sfugge ancora a un’immagine univoca, alla presa di quella che oggi –con termine sfibrato dall’abuso- chiameremmo un’icona. Della sua vita prima della rivoluzione non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con famiglia si trasferiranno quasi subito in Piccardia. Il padre, che muore quando il ragazzino ha dieci anni, è un ex militare assurto allo status di notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Rampollo della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali pescherà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse con cui vorrebbe convolare a nozze se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio di un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: depreda l’argenteria di famiglia e fugge a Parigi.
Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, che all’epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Legittimo il sospetto che l’Arcangelo ne assapori tutte le voluttà libertine. Ma la pacchia dura poco. Perché la madre derubata ha fatto spiccare un mandato di cattura contro il ragazzo, ancora minorenne. Saint-Just finisce in gattabuia. Durante la breve detenzione germoglia in lui l’idea di “Organt”, poema acerbo e prolisso (quasi ottomila versi), confusamente licenzioso, antiaristocratico e anticlericale, dato alle stampe nel 1789. In quell’anno spartiacque Antoine avrebbe assistito alla presa della Bastiglia, ma non ce n’è prova. Nel frattempo ha ottenuto una laurea in legge, o forse se l’è comprata.
Ambizioso, nelle prime fasi rivoluzionarie si muove da agit-prop marginale. Non è ancora repubblicano, ma moderato fautore d’una monarchia costituzionale. Poi il salto: raggiunta l’età che gli consente di accedere all’assemblea, irrompe sulla tribuna della Convenzione con un discorso d’esordio che lascerà il segno. Il momento è grave: c’è in ballo la testa di Luigi XVI°. Tra quanti chiedono che il sovrano venga processato e quelli che invocano una punizione senza giudizio, Saint-Just sembra allinearsi ai secondi –con il motto celeberrimo di “Nessuno può governare innocentemente”. In realtà, leggendo bene il testo dell’intervento, il giovane deputato propone una terza soluzione: il re va condannato a morte, ma previo processo speciale. Siamo ai primi vagiti di una “giustizia popolare” fatta di tribunali-farsa che nei secoli a venire conoscerà spettacolare fortuna.
A ragione, Solinas invita a diffidare delle letture deformanti che nella posterità hanno trasformato Saint-Just, animato da antica religio civile, in un antesignano del rivoluzionario moderno –di cinismo leninista, per intenderci. Eppure è lampante come nella sua teoria del tirannicidio si produca uno scatto concettuale decisivo. In sostanza, secondo Saint-Just, il monarca non può essere giudicato come un qualsiasi cittadino per il semplice motivo che metafisicamente non è un uomo pari agli altri. Forse nemmeno un uomo tout court. Ponendosi fuori dal contratto sociale, il re non rientra nell’ambito della Legge: è per essenza un ribelle da abbattere. Il problema non è l’individuo Luigi Capeto, bensì la sua funzione, l’istituto monarchico che egli incarna e dal quale non può essere scorporato. Ergo: per sopprimere la funzione va soppresso l’uomo. Con logica a suo modo inesorabile, si comincia a razionalizzare l’identikit di un nemico disumanizzato che nella modernità rivoluzionaria porterà dritto alla paranoia di Stato e all’eliminazionismo su scala industriale.
Se è vero l’adagio secondo cui la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, Saint-Just contribuisce a pavimentarla. Anche attraverso una comunicazione politica che, superando i verbosi schemi dell’oratoria tradizionale, inventa una nuova retorica: svelta, nervosa, assertiva, imperniata su frasi brevi, apodittiche, ipnotiche. Il laconismo di Saint-Just –supremo fabbricante di slogan- è anche un modello di vita, dice Solinas. Sì, ma che genere di vita? Spazzate sotto il tappeto le tentazioni libertine, Antoine si converte in emblema del puritanesimo rivoluzionario. A spaventare è meno il suo fanatismo della virtù che la sua concezione della felicità. Una felicità che –in rottura con l’eudemonismo Ancien Régime e i suoi decadenti sollazzi- Saint-Just scinde severamente dalla sfera del “piacere”: “Chi ha un’idea orrenda della felicità, la confonde con il piacere”, tuona. Non è un paleo-comunista, difende la proprietà, vagheggia una società spartana che la redistribuisca tra “piccoli produttori indipendenti, ciascuno dei quali possiede il proprio campo o la propria bottega e vive del frutto del suo lavoro, a uguale distanza dal bisogno come dal superfluo”.
Ha accantonato le velleità letterarie e deciso che cercherà il successo in politica. Ma non quella dei politicanti, “sanguinoso gioco delle parti, alleanze, intrighi, compromessi, tattiche”, chiosa Solinas. Contro la mediocrità dei politicards, Saint-Just si infervora nel ruolo del legislatore messianico. Si batte per la creazione di istituzioni forti che stabilizzando la Rivoluzione siano in grado di depurarla dalle cruente lotte fratricide. E dire che senza la politica, l’antipolitico Antoine de Saint-Just sarebbe rimasto un Carneade. Per quanto eccentrico, è venuto su sotto l’ala del dominus Robespierre e del suo partito egemone. Non è, scrive Solinas, un macellaio del Terrore. Vero. Ma, da membro del sinistro Comitato di Salute pubblica, ne sarà tra i maggiori pupari. Con la sua ghenga liquida gli oppositori dantonisti e hébertisti. Esige il castigo perfino per chi, nel turbine dell’esaltazione palingenetica, si mostri semplicemente indifferente o passivo. Dopo l’orgia di sangue che ha banalizzato la ghigliottina a routine, Antoine commenta amaro: “L’esercizio del terrore ha reso insensibili al delitto, come i liquori forti rendono insensibile il palato”. Ma a disgustarlo non è la carneficina in sé quanto il fatto che non sia riuscita a far piazza pulita di partigianerie e fazioni: a salvare l’unità rivoluzionaria.
Per Saint-Just la Rivoluzione aveva scardinato l’asse della Storia inclinandolo irresistibilmente verso il Bene. Senonché in quell’accelerazione, in quella vertigine, la macchina purificatrice del Terrore l’ha tramutata in una creatura autofaga che divorerà i suoi figli.
Però la violenza generalizzata non rappresenta una degenerazione, un deragliamento della locomotiva insurrezionale: la rivoluzione è ab ovo guerra. Da subito chiamata ad attaccare, a difendersi contro aggressori esterni ed intestini. Il cittadino è immediatamente sinonimo di soldato. Allontanandosi dalle cabale parigine, l’ultimo Saint-Just si spende come un matto per ristrutturare e motivare gli sciancati eserciti rivoluzionari che alle frontiere faticano a respingere l’assalto delle potenze monarchiche coalizzate. Da missionnaire de la République (traduci: commissario politico), risolleva il morale delle truppe trascinandole verso la vittoria. Quella di Fleurus rimarrà incisa nelle memorie. Agli occhi di saint-Just, del suo ethos militare, spiega Solinas, “la guerra può per la formazione di una nazione ciò che la politica non è in grado di produrre con la stessa rapidità: unità, fraternità, emulazione, spirito di servizio”. Peccato che Antoine non sia praticamente mai stato visto lanciarsi in battaglia. Di davvero “armato”, nell’esteta armato sembra dunque esserci pochino.
Stando al bel ritratto che nel 1939 ne tracciò il “fascista” Pierre Drieu La Rochelle, Saint-Just “avrebbe potuto essere un grande scrittore”. Ma il debutto poetico non fu granché promettente. Sarebbero state quindi le sue intemerate tribunizie a proiettarlo nell’orbita della letteratura? Discutibile. Antoine brucia la propria giovinezza nella rivoluzione. E constatandone l’impazzimento ne rivendica l’innocente purezza originaria fino all’autoimmolazione, al sacrificio di sé –ricorda Solinas. Però il sacrificio di sé non è un valore in sé. Come quella di tanti utopisti morti giovani e belli, anche la tragedia di Saint-Just non ci parla solo degli slanci di una gioventù eternamente tradita, ma anche delle sue miserie, idolatrie, accecamenti. Prima di diventare un mito, Antoine fu un vorace consumatore di miti. Cultore di una romanità da peplum che in cima ai suoi divi colloca Bruto, il cesaricida: “Se Bruto non uccide gli altri, ucciderà se stesso”, promette Saint-Just. Non si farà fuori, ma la sua morte ha il sapore di un suicidio per interposta ghigliottina. Nel gran repulisti del Termidoro, che lo annienterà assieme a Robespierre e associati, Saint-Just sale sul patibolo con siderale distacco da dandy, indossando uno squisito abito color camoscio, gilet bianco, culotte grigio-perla, un alto colletto su cui è annodata la larga cravatta che è sempre stata un suo segno distintivo. Un ultimo messaggio di romano stoicismo o di vanità? Impossibile deciderlo.
Leggenda vuole che, appena mozzata, la testa di Charlotte Corday –l’assassina di Marat- fu schiaffeggiata dal boia e la sua guancia arrossì. Forse, subendo il medesimo sfregio, quella dell’algido Saint-Just non avrebbe cambiato colorito.
Marco Cicala