Salvatore Di Giacomo (1860-1934), “‘Na tavernella” (1901)

Salvatore Di Giacomo (1860-1934), “Na tavernella” (1901)

 

Maggio. Na tavernella

ncopp’ ‘Antignano: ‘addore

d’ ‘anèpeta nuvella;

‘o cane d’ ‘o trattore                                                      4

 

c’abbaia: ‘o fusto ‘e vino

nnanz’ ‘a porta: ‘a gallina

ca strilla ‘o pulicino:

e n’aria fresca e ffina                                                     8

 

ca vene ‘a copp’ ‘e monte,

ca se mmesca c’ ‘ viento,

e a sti capille nfronte

nun fa truvà cchiù abbiento…                                    12

 

Stammo a na tavulella

tutte e dduie. Chiano chiano

s’allonga sta manella

e mm’accarezza ‘a mano…                                          16

 

Ma ‘o bbi’ ca dint’ ‘o piatto

se fa fredda ‘a frettata?…

Comme me so’ distratto!

Comme te si’ ncantata!…                                                          20

 

            da “Vierze nuove”, 1901

 

Cinque quartine che sembrano fatte d’aria, rarefatte come un soffio; i settenari corrono via veloci, resi più svelti dalle vocali indistinte del dialetto napoletano. Le rime alternate sono facili, qualcuna facilissima e legata alla grazia leziosa dei diminutivi; le pause spezzano i versi facendoli ancora più mobili. Gli enjambements tra un verso e l’altro smagliano la nettezza della visione, segnando il passaggio dalla pittura alla musica; l’aria fresca scavalca la divisione metrica e occupa per intero la terza strofa, mimando il contenuto col ritmo. Solo alla fine del testo la voce è costretta a fermarsi e a pronunciare i due ultimi versi lentissimamente, per riprodurre l’incantamento degli innamorati. La composizione ha un andamento cinematografico: prima la descrizione ambientale, topograficamente precisa –una trattoriola sopra Antignano (nucleo storico dell’attuale Vomero, allora amena zona collinare e campestre), la location rustica. Poi l’aria fresca mista a vento serve da freccia direzionale e quasi da zoom, fino al primissimo piano dei capelli di lei che non trovano “abbiento”, cioè pace, mentre la panoramica si blocca. Dai capelli di lei un breve stacco in campo medio, loro due seduti, per ritornare subito sul particolare ingrandito delle mani che si incontrano. Nell’ultima quartina non c’è più descrizione, ma non c’è neanche un vero dialogo: la domanda è interiore, non aspetta risposta.

C’è solo lo stupore dell’intesa erotica che ha cancellato tutto, la magia ambientale ha agito: i due participi passati di genere diverso sigillano l’unione di maschile e femminile con la stessa simmetria con la quale sigillano la rima alterna, in una coppia sintattica perfettamente parallela.

Dove c’è il cambio di registro, dopo i puntini del v. 16, la descrizione avrebbe potuto continuare col viso di lei, con gli occhi che si parlano e, magari, con frasi d’amore; tutto è sostituito, più efficacemente, dalla frittata che si raffredda nel piatto. Lo scatto realistico e anti-sentimentale è invece sentimentale al quadrato perché descrive l’attrazione nella sua volatile essenza, l’innamorarsi dell’amore. L’ellissi, coi due versi finali a specchio, passando dall’indicativo all’esclamativo suggerisce l’emozione in atto. Di Giacomo ha scritto molte canzoni (suoi i testi di Marechiare, Era de maggio, ‘E spingule frangese) e molti suoi testi autonomi sono stati musicati; il nostro testo lo è stato solo recentemente, e con timoroso pudore. Troppo intimo il canto, troppo sospeso il silenzio degli ultimi versi –degni di quelle che Verlaine un ventennio prima aveva chiamato Romanze senza parole.

Aveva ragione Benedetto Croce a difendere la poesia di Di Giacomo dall’accusa di essere una poesia minore solo perché in dialetto; ma aveva torto a credere che lo status minoritario del dialetto non influenzasse la poesia di Di Giacomo. Il napoletano come lingua letteraria subisce proprio in quegli anni un cambiamento che ne segnerà il destino a lungo. Raffaele La Capria ci fornisce un’ipotesi: uscita sconfitta dal Risorgimento, la borghesia napoletana cerca di recuperare in altro modo quel che ha perduto. Mentre a Roma diventa succube clientela, in patria assorbe “tutte le istanze e i sentimenti della plebe, interpretandoli culturalmente per edulcorarli”. La Capria accenna a “una grande pitonesca digestione”, in cui la borghesia si sforza di ingoiare la plebe, ingentilendone la lingua e i costumi; la “napoletanità” per gran parte del ‘900 è stata una costruzione artificiale nata dalla nostalgia. Di Giacomo è l’esponente perfetto, proprio perché inconsapevole, di questo momento cruciale: il suo napoletano è soft, traducibilissimo, qualcuno ha parlato addirittura di un “italiano potenziale”. La sua sintassi poetica appartiene più alla lingua colta che alla norma plebea; qui, nel nostro testo, basta guardare all’uso estensivo delle frasi nominali (senza verbo reggente), tipico dell’impressionismo letterario. Il primo verbo principale lo incontriamo al verso 13 (Stammo a na tavulella); sopra, i verbi dipendono tutti dalla relativa “che” (“ca”), in fila ordinata a inizio verso. Ma l’impressionismo sintattico porta con sé il bozzettismo rappresentativo: i primi sette versi sembrano un presepe napoletano, un campionario di pittoresco (il cane che abbaia, il fusto di vino, la gallina, l’odore aromatico della nepitella). Non si usa una lingua inautentica senza pagare dazio: l’aria fresca e ffina, chiano che rima con mano, sono così frequenti in Di Giacomo che rasentano lo stile formulare, per non dire lo stereotipo. Un realismo da canzonetta?

Ma Di Giacomo è un poeta vero e sa trovarsi un cantuccio, magari limitato, in cui ripararsi dal rumore di fondo. Divide in due la sua produzione in versi: da un lato la tradizione veristica, i sonetti dialogati, i fatti di sangue, tutta la paccottiglia pseudo-popolaresca; dall’altro le “ariette” (altra parola verlainiana) in cui ritrova l’agilità dei suoi amati Paisiello e Cimarosa, la scuola settecentesca del melodramma napoletano. Un Settecento rivisitato con ironia e con una tecnica “in levare” che lo trasforma in trina traforata; così attraversa la napoletanità e si sporge sul sogno novecentesco del dialetto come “lingua per poesia”.   

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica23 marzo 2014, p. 52

 

Concordo con l’analisi di La Capria. Annoto soltanto che la borghesia napoletana e meridionale arriva al 1860, all’unità italiana, stroncata dalle spietate repressioni borboniche del 1799, del 1821 e del 1848 che, nel plauso della plebe, ne avevano decapitato e impiccato la parte migliore e più civilmente coraggiosa.

                                                                                  Gennaro Cucciniello