Sam Peckinpah, macho da cineclub
I suoi film –ammirati e detestati dalla Sinistra degli anni ’70- alternavano esplosioni di violenza a malinconiche introspezioni.
Esercizio di archeologia moderna: torniamo agli anni ’70 del Novecento, nell’ambiente universitario italiano e in particolare nei luoghi, ormai estinti, che erano i cineclub, dove si davano convegno gli amanti del “vero cinema”. Là vigeva il culto degli autori, la venerazione dei registi-maestri, anche se chi veniva omaggiato dai cinéphiles non apparteneva necessariamente all’aristocrazia del cinema ufficiale. Insomma, c’erano “i registi da cineclub” e quello tra loro che godeva di un seguito integralista (nonché di un’agguerrita schiera di detrattori) era Sam Peckinpah, per definizione il regista della violenza estrema e spettacolarizzata, il narratore di un’America che aveva costruito la sua fortuna sulla sopraffazione. Da più parti venne bollato direttamente come fascista, autore dedito a celebrare l’essenza malata dell’imperialismo. Eppure, lacerati dal dubbio ma sedotti dalla visione, i giovani progressisti divoravano i suoi film, ipnotizzati dal suo stile senza compromessi, che conciliava grandeur, contemplazione dell’orrore, celebrazione di personaggi perdenti: un cinema-cinema che sembrava venire dopo (o molto prima) del “messaggio” invocato freneticamente, salvo nascondere, per chi se ne accorgesse, una potente capsula metaforica.
Insomma, nell’Italia degli anni bui, Sam Peckinpah ha goduto di un seguito superiore a quello accordatogli in patria, o che gli venne del tutto negato dal circuito degli Studios, dove lo giudicavano un personaggio radioattivo e rompiscatole. Fu soprattutto grazie ai suoi film che in quegli anni i nostri appassionati scatenarono la passione per un cinema retrò come il western, di cui Peckinpah era un ritardatario interprete e di cui ormai le majors sembravano ormai disinteressarsi. Il suo film-manifesto, Il mucchio selvaggio (1969), ma anche Sfida nell’Alta Sierra (1961), L’ultimo buscadero (1972) e Par Garrett e Billy the Kid (1973), erano considerati i legittimi eredi dei capolavori di John Ford, e venivano sottoposti a una doppia fruizione: una tutta visuale, beatamente peccaminosa dal momento che la spettacolarità dei massacri era puro piacere da cinematografari. E una seconda lettura, finalmente politica, che forse travalicava le intenzioni (almeno quelle consapevoli) dell’autore. Qui le vicende del brutale Ovest venivano lette come analisi della psiche americana e delle sue contraddizioni ad opera di un indomabile anarchico. “Il mucchio selvaggio” è un film formidabile, perché viene dalle viscere della nazione”, scriveva Paul Schrader, critico che presto si sarebbe trasformato in regista. “Il trauma del patriottismo è un tema ricorrente nell’arte americana, ma mai tale pena è stata evidente come in Peckinpah”.
Tutto ciò va detto per inquadrare cosa quest’uomo abbia significato per una platea geograficamente lontana da lui, ma tanto appassionata alla sua poetica. Per approfondire in modo più sistematico il percorso e le motivazioni di Peckinpah è invece ora disponibile uno strumento prezioso: la versione italiana della sua biografia scritta da David Weddle, “Se si muovono… falli secchi!” (titolo prelevato da una battuta di William Holden, in “Il mucchio selvaggio”), appena pubblicata da Minimum Fax (pp. 720, euro 22). L’intenzione del saggio è chiara: rispecchiare l’inestricabile legame che unisce la vita e le opere di Peckinpah, rendendo indistinguibile la sua realtà dai suoi desideri. Con molte rivelazioni interessanti: ad esempio quella che Sam, sempre impegnato a dipingere un universo di criminali e di diseredati, ebbe in realtà natali tutt’altro che umili. La sua era una vecchia famiglia di pioneri del West, che prosperò grazie alla caparbietà con cui i capostipiti s’adattarono alla vita di frontiera. Sam è il figlio di un importante avvocato di Fresno, California, e divide l’adolescenza tra la città e le proprietà di campagna, in the wilderness, dove impara a cavalcare e a sparare, e passa mesi interi a contatto con quei cowboy che lo affascinano per il loro coraggio e per come incarnano una libertà senza limiti.
Sono i primi ingredienti che, una volta scoperta la vocazione per il cinema, diverranno la costante dei suoi film e ispireranno anche il suo modo di rappresentarsi: vecchi jeans, T-shirt sdrucite, stivali malmessi, bandane e Ray-ban, in piena adesione al canone del vagabondo solitario. Sam “vuole” essere un maledetto, prima d’esserlo veramente. Vuole praticare gli eccessi, professare il maschilismo e il cameratismo, perdersi nelle grandi pianure, assaporare gli amori mercenari, cedere al gusto per la bottiglia, che presto lascerà spazio alla dipendenza da cocaina che lo ucciderà. Intanto è l’apprendistato da assistente di Don Siegel, uno dei più solidi registi western, a conformare la sua visione.
Da subito i film di Peckinpah mostrano uno stile inconfondibile: la sua regola è di girare una montagna di pellicola e una quantità di scene enormemente superiore al necessario (con gran scorno dei produttori), utilizzando per le scene d’azione una nutrita batteria di cineprese, posizionate in angolazioni accuratamente studiate, secondo il progetto che ha già tutto in testa. Ultimato il set, Peckinpah si chiude in sala di montaggio con i suoi fidati editor –Monte Hellman e Lou Lombardo, tra gli altri- salvo uscirne con un patchwork cinematografico che non ha precedenti per ritmo, vertigine della visione, suggestione della rappresentazione e, soprattutto, per i fiumi di violenza che colano dai fotogrammi, come nessuno ha mai osato fare a Hollywood. Il Mucchio Selvaggio, coi suoi esasperati ralenti, le atmosfere nichilistiche e la furia distruttrice, rimane il capolavoro assoluto. All’altro estremo della sua descrizione dell’iperviolenza, resta insuperato anche Cane di paglia (1971), girato in Cornovaglia, con Dustin Hoffman nella parte di un timido pacifista americano che si tramuta in un sanguinario giustiziere. E’ nel corso delle riprese di questo film che si rafforza il legame sentimentale tra Sam e la donna che meglio d’ogni altra ne comprenderà l’animo diviso: Katy Haber, che sarà la sua assistente, la sua amante e, col passare degli anni, la badante dei suoi stravizi: “Sam viveva una condizione di perenne conflitto”, racconta Katy. “Ma usava i film per dire la verità su se stesso e rivelare la propria vulnerabilità. Certi giorni era così insicuro che si rifiutava di uscire dalla sua roulotte”. Peccato che alla fine anche Katy non resisterà alle malefatte di Peckinpah, allontanandosi da lui e abbandonandolo ancora più solo.
Eppure c’è anche un altro Peckinpah da ricordare, oltre al santone del sangue zampillante e delle mitragliatrici impazzite. C’è una sua versione più crepuscolare, a riprova che l’uomo, prima del regista, visse una vera condizione di bipolarità, al confine con la schizofrenia. Film come La ballata di Cable Hogue (1970) o i citati Buscadero e Pat Garrett, sono cantici di un’America fragile, immortalata nel momento del definirsi, prima della stabilizzazione dei capitali e delle gerarchie. Una terra per individualisti, una sconfinata occasione di ricerca interiore, un irripetibile confronto con la meraviglia della natura. Difficile credere che queste opere escano dalle stesse mani che allestirono l’elegia del sadismo di Cane di paglia o la distorsione del noir di Voglio la testa di Garcia (1974).
Ma questo è il mistero magico che Sam Peckinpah, a soli 59 anni, porterà con sé nella tomba. Guardato con devozione dai colleghi della sua generazione –Altman, Coppola, Scorsese- e con una sorta di distaccata soggezione da quelli arrivati dopo, la generazione dei Lucas/Spielberg, che del cinema avevano un’idea diversa. Per quanto i suoi discepoli non si estingueranno: tipetti come John Woo o Quentin Tarantino, ad esempio, non hanno mai smesso d’esprimere la loro adorazione per il vecchio Sam, per la cinetica rivoluzionaria delle sue scene d’azione, per quel rapporto artigianale con la tecnologia, e soprattutto per quel suo tocco fatale da maudit novecentesco.