Se l’uomo si crede e si fa Dio

Se l’uomo si crede e si fa Dio

Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il filosofo e sociologo Edgar Morin all’alba di questo millennio: “L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota”.

 

Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecno scienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche. Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline-madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica). La squadra B schiera i postumanisti che, anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecno scienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita.

Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché “tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante”, come disse allo “Spiegel” nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica. Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari.

L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani –assicurano- non sono più in grado di gestire gli immensi flussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo.

Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: “Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (…) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del ‘900 per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo”.

Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” riflette: “Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (…) Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità, frutto del matrimonio tra I. A. e bio-ingegneria) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri”.

Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola umano non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza Artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I. A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I. A. Nel frattempo, finché con o senza post ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo fin dove si può, o fin dove si vuole?

E’ vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano. “La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea”, ha scritto la filosofa del postuma Rosi Braidotti. Ma forse una parte di ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un salto più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che funziona e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole. Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecno-scienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi). Noi lo vogliamo o non lo vogliamo quel più per i nostri figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno essi deciderlo?

                                                                  Marco Pacini

Espresso, 1 aprile 2018, pp. 74-76