Si può avere ancora fiducia nella democrazia?

Si può avere ancora fiducia nella democrazia?

Dalla fine delle utopie collettive al desiderio di mantenere lo status quo.

 

Viviamo tempi molto difficili, l’Italia sta male. Il pronosticato tracollo dell’euro, la crisi finanziaria internazionale che si è ormai trasformata in crisi dell’economia reale, le specifiche difficoltà italiane e le decisioni del governo Monti ci fanno vivere con preoccupazione questi giorni cruciali. Avevo letto qualche mese fa un’analisi interessante di un politologo bulgaro, Ivan Krastev, presidente del “Centre for liberal strategies” di Sofia, sulle ragioni della crisi dei modelli democratici occidentali nelle pagine di “La Repubblica”, 30 settembre 2011, pp. 52-53. Voglio qui riproporla, premettendo però qualche considerazione. 

Vittorio Foa, poco prima di morire, aveva lamentato che forse il degrado della politica italiana stava proprio nel pensare solo a se stessa. Colpisce che non si parli mai dell’esempio, l’esempio non esiste più come categoria di giudizio del proprio e dell’altrui comportamento. Anche a sinistra la politica dell’esempio è venuta meno, come se i valori bastasse predicarli, non viverli e praticarli. Una rinascita sarà possibile solo se ciascuno pensa a ciò che fa, cioè a chi giova e chi danneggia la propria azione. La nostra rieducazione civile riparte nelle case, nelle scuole, negli ospedali, nelle strade, nella vita personale di ciascuno di noi. Si denuncia da più parti con spietatezza la situazione italiana. I nostri ritardi strutturali e ormai patologici non derivano solo dalla concorrenza internazionale ma soprattutto dalla nostra incapacità e mancanza di volontà: sono il debito pubblico, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa propensione al rischio e all’innovazione degli imprenditori, il sistema finanziario inadeguato, il sistema formativo obsoleto, un mercato del lavoro troppo rigido e inadatto a un’economia aperta, il devastante divario nella redistribuzione del reddito tra lavoratori dipendenti con imposte trattenute e lavoratori autonomi su cui la pressione fiscale dipende dalle loro dichiarazioni. Con l’adozione dell’ euro noi italiani, ceti dirigenti compresi, non abbiamo percepito che dal punto di vista economico siamo tenuti a comportarci come le virtuose regioni tedesche e che, non facendolo, non reggiamo all’impatto di una moneta sempre più forte, l’euro-marco che portiamo in tasca. Per contro, nella nostra stragrande maggioranza ci comportiamo come ai tempi della lira ed esprimiamo una  filosofia di vita appartenente al bel tempo della finanza allegra e del debito crescente accumulato sulle spalle di figli e nipoti.

 Vorrei scrivere qualcosa anche sul concetto di “democrazia” (cose peraltro già dette nel 2008 in una conferenza del circolo culturale “Palazzo Tenta 39” di Bagnoli Irpino). Ogni cittadino, si sa, è portatore di soggettività politica. In una struttura utopica di democrazia diretta ognuno rappresenterebbe al meglio le idee e gli interessi di se stesso. Ma la società industriale moderna è complessa, ed imponente dal punto di vista demografico. In Occidente siamo in questa fase storica in una democrazia rappresentativa. Ed è in atto un’evidente crisi del principio di rappresentanza, che ha varie cause, penso soprattutto alla potenza degli apparati tecnico-economico-finanziari, che non funzionano certo sulla base dei princìpi democratici. Basta vedere cosa è successo con la gravissima crisi finanziaria di questo ultimo periodo, e con una recessione economica che si prospetta tremenda, spietata e lunga. In teoria la legittimità democratica si fonda sulla volontà espressa dal popolo ma in realtà questa volontà non è mai generale e la maggioranza non è altro che una frazione percentualmente dominante del popolo. Per questo, non basta il verdetto delle urne ma è indispensabile il legame di fiducia che il potere deve stringere con i cittadini. Bisogna prendere sul serio la contestazione della prassi politica attuale, la critica della struttura e del funzionamento dei partiti e non assumerla come una patologia contingente, come si legge in alcune analisi approssimative e fuorvianti. Essa ci permette di vedere un limite essenziale del discorso democratico. Io delego a un mio rappresentante me stesso, proietto in lui le mie idee e la tutela dei miei interessi. Se io mi identifico col mio rappresentante, se egli riflette perfettamente le mie idee, questa è la forma democratica ottima. Ma allora si perde la rappresentanza. Perché questa comporta una differenza e una distanza tra rappresentante e rappresentato. L’idea regolativa della democrazia rappresentativa comporta perciò di necessità una critica immanente e continua dell’idea stessa di rappresentazione. Io, homo democraticus, vivo di questo paradosso: sono costretto a delegare ma insieme esprimo una insopprimibile istanza all’autonomia, vivo cioè questa dialettica politica con un senso di privazione, di alienazione. E’ evidente che il deputato rappresentante deve sentire l’enorme responsabilità di rapportarsi di continuo ai suoi elettori (è su questo drammatico contrasto che si misura la vera porcata del Porcellum di Calderoli e Berlusconi!, quando sottrae agli elettori la scelta del deputato trasferendola alle segreterie dei partiti, o addirittura al capo del partito). L’alienazione dei miei diritti di cittadino deve essere compensata dal dovere morale e politico del mio rappresentante a non trattarmi da suddito, a non arrogarsi privilegi assurdi (v. le retribuzioni altissime e i tanti benefit), a servire lo Stato con umiltà, a essere sottoposto sempre a controlli (la sua certificazione penale) e a revoca, a non durare in eterno (ecco i due-tre mandati al massimo). Il potere deve essere esempio responsabilità servizio sacrificio, non un marciume a volte infame, non un sistema perdonatorio che premia le insipienze e le clientele, accaparratore di privilegi ben remunerati, con legami non sorprendenti con la malavita organizzata e con il cuore di tenebra della politica.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

La crisi a cui oggi le democrazie europee si trovano a far fronte non è un fenomeno temporaneo, né il risultato delle ripercussioni della crisi economica o del fallimento delle leadership nelle democrazie occidentali. La crisi attuale affonda le radici nel fatto che le società europee sono più aperte e democratiche di quanto siano mai state in passato. Proprio questa loro apertura sfocia nell’inefficacia delle istituzioni democratiche e nella mancanza di fiducia in esse. Probabilmente è ormai tempo che “le democrazie della fiducia” vengano rimpiazzate dalle “democrazie della sfiducia”, per dirla con Rosanvallon. Sicché il problema non è più in che modo le élite possono ripristinare la fiducia della gente: l’interrogativo ora è come può una democrazia liberale funzionare in un contesto in cui le classi dirigenti saranno costantemente oggetto di sfiducia, a prescindere da quello che fanno o dal livello di trasparenza dei meccanismi di governo.

L’ascesa del populismo e la sfiducia nelle élite hanno ridotto la politica europea a uno scontro tra la retorica anti-corruzione della gente e la retorica anti-populista dell’establishment. Non vi è una nuova utopia collettiva in grado di catturare l’immaginario degli individui. Anziché ridare slancio alla Sinistra o alla Destra, l’attuale crisi economica ha minato l’idea stessa di democrazia politica strutturata in destra e sinistra. L’Europa e il mondo sono diventati populisti. Nondimeno, si tratta di una strana versione del populismo: il popolo insorge non per esprimere una concezione chiara di ciò che vuole cambiare, bensì per reclamare vendetta e punizioni. I ribelli di oggi non si oppongono allo status quo di ieri: al contrario, cercano di preservarlo (…) E’ il Sessantotto al contrario. Nel 1968 nelle piazze di tutta Europa gli studenti proclamarono il loro desiderio di vivere in un mondo diverso da quello dei loro genitori; ora gli studenti scendono in piazza per proclamare il loro desiderio di vivere nel mondo dei loro genitori.

Per dare un senso allo stato attuale della democrazia è necessario ripensare le conseguenze involontarie delle cinque rivoluzioni che hanno scosso il mondo occidentale a partire dagli anni Sessanta del ‘900. Nelle prime fasi queste cinque rivoluzioni sono state cruciali nell’approfondimento dell’esperienza democratica.

La rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta ha posto l’individuo al centro della politica, portando allo smantellamento della famiglia autoritaria e dando nuovi significati all’idea di individuo libero. Così però ha favorito il declino del senso di finalità comune: la politica è degenerata in un’aggregazione di richieste individuali riguardanti la società e lo Stato. L’identità ha cominciato a monopolizzare il discorso pubblico: l’identità privata, sessuale, culturale. La violenta reazione contro il multiculturalismo è una conseguenza diretta dell’incapacità degli anni Sessanta di ideare una concezione condivisa di società. L’ascesa del nazionalismo anti-immigrazione è una tendenza pericolosa ma rappresenta più un desiderio di comunità e vita comune che non una forma di avversione verso gli stranieri.

La rivoluzione del mercato degli anni Ottanta ha delegittimato il ruolo dello Stato quale attore economico. Ha contribuito alla diffusione globale dei regimi democratici e al crollo del comunismo. Ha reso le società più ricche che mai ma ha anche infranto quella relazione positiva che esisteva tra la diffusione della democrazia e la diffusione dell’ uguaglianza. Dalla fine del XIX secolo fino agli anni Settanta del ‘900 le società avanzate dell’Occidente sono diventate tutte meno inique. La rivoluzione dell’avidità portata avanti da Reagan ha ribaltato questa tendenza ed è sfociata in un’ossessione per la creazione di ricchezza, alimentando anche sentimenti anti-governativi che oggi sono al centro della crisi di governabilità nelle democrazie occidentali. La rivolta popolare contro le élite che è al cuore dell’ attuale condizione populista è una conseguenza diretta del fatto che la maggioranza dei cittadini tende a percepire i cambiamenti sociali e politici di questi decenni neoliberali come un momento di emancipazione ma non delle masse bensì delle élite. In questo nuovo meraviglioso mondo regolato dal mercato le élite si sono affrancate dai vincoli ideologici, nazionali e comunitari.

Le rivoluzioni del 1989 nell’ Europa orientale hanno conciliato la rivoluzione socio-culturale degli anni Sessanta (respinta dalla Destra) con la rivoluzione del mercato di Ronald Reagan degli anni Ottanta (rigettata dalla Sinistra) promuovendo l’idea che la democrazia liberale fosse il fine della storia e la condizione naturale dell’ umanità. Elevando la democrazia a condizione naturale della società, queste rivoluzioni hanno ingenerato enormi aspettative circa le conquiste della democrazia, piantando così i semi del futuro malcontento. Nel periodo post-1989 era credenza comune che l’introduzione di libere elezioni e l’adozione di costituzioni liberali fossero sufficienti a garantire la pace, a promuovere la crescita economica e a ridurre i livelli di violenza e di corruzione. La realtà, tuttavia, si è rivelata molto più complessa. La Cina ha dimostrato che gli Stati autoritari sono in grado di mantenere un elevato tasso di crescita per lunghi periodi di tempo. Il fallimento della democratizzazione in molti paese del terzo mondo ha dimostrato che non bastano libere elezioni per ottenere ordine e prosperità. L’esperienza dei paesi dell’ Europa orientale indica che quello tra democrazia e autoritarismo è in Europa il confine meno protetto.

C’è poi la rivoluzione nelle comunicazioni determinata dalla diffusione di Internet. Questa rivoluzione ha frammentato lo spazio pubblico e ridisegnato i confini delle comunità politiche esistenti. Pur avendo dato agli individui il potere di sollevarsi contro chi governa, la rivoluzione internettiana non ha per ora contribuito a consolidare la natura deliberativa del processo democratico.  

Infine la rivoluzione delle neuroscienze ha indotto i consulenti politici a credere che al cuore della politica democratica vi fossero la manipolazione delle emozioni e il dibattito irrazionale. Meno considerati sono gli effetti che i nuovi studi sul cervello e sulle nuove tecnologie di marketing hanno avuto sulla formazione delle concezioni democratiche degli individui. Le nuove neuroscienze hanno portato a una migliore comprensione del modo in cui i soggetti pensano, ma esse sono diventate altresì uno strumento per manipolare gli individui, perché molte scoperte sono sfociate in una rottura radicale con la tradizione della politica basata sulle idee. Karl Rove (il consulente politico dell’ex presidente Usa George W. Bush) ha rimpiazzato Karl Popper quale nuovo profeta della politica democratica.

In breve, il mondo non è più strutturato su una netta contrapposizione tra democrazia e autocrazia, ma sono piuttosto le contraddizioni intrinseche alle società democratiche a destare preoccupazione. Quel che è da temere è l’autolesionismo della democrazia. E sarebbe un errore enorme considerare l’attuale ascesa del populismo come una sorta di patologia o di fenomeno temporaneo.

                                                                       Ivan  Krastev

 

In ultimo, ancora qualche notazione sulle ultime due rivoluzioni citate da Krastev, quella di Internet e quella delle neuroscienze. Per quanto riguarda Internet vorrei solo riflettere sugli avvenimenti degli ultimi mesi nei paesi del Nord Africa e sulle ultime elezioni amministrative e sul referendum in Italia. I giovani si stanno risvegliando e stanno forse scoprendo di poter occupare il proprio presente meglio che lamentando d’esser derubati del futuro; usano anche bene la fantastica gamma di comunicazioni tascabili di cui oggi ciascuno dispone, suscitando l’invidia di chi viene dall’età della pietra del ciclostile. Questi fatti lasciano intravedere per la prima volta una trasfigurazione espressiva della politica che magari anticipa quella dei contenuti. Ma intanto questo mutamento continua a rivelarsi in tempo reale sulle nuove piattaforme digitali quando costruisce forme di comunità, fa vibrare all’unisono milioni di individui (toh, quello che si diceva che riusciva al Berlusca!), produce nuovi linguaggi, consente inedite connessioni, incoraggia dinamiche di scambio, di condivisione e al dunque fa pure vincere le elezioni. Azzarderei: Berlusconi finisce non solo perché si è rivelato impotente e del tutto inadeguato ad affrontare i gravissimi problemi posti all’Italia dalla crisi ma anche perché è nata una domanda di nuova politica, una chiara affermazione di autonomia dei cittadini, la disobbedienza al pensiero dominante. Vincerà invece una politica reticolare, a movimento, incentrata sui cittadini più che sull’adulazione del popolo. Certo, in Egitto le recenti elezioni parziali stanno dando la vittoria ai partiti islamici e stanno marginalizzando i giovani di piazza Tahrir ma le rivoluzioni sono zigzaganti, imprevedibili, conoscono fasi contraddittorie, sanno essere masochiste, chiedono tempo. Mesi. Anni. Decenni. I tempi lunghi della storia, non quelli brevissimi degli avvenimenti. Per riassumere: contano il pane e la rete, prima l’uno e poi l’altra. Motivi analogici (il prezzo del pane) e strumenti digitali. Senza nulla togliere al nuovo potere dei cinguettii, quello che si è sentito nelle strade nordafricane è stato piuttosto “un suono e un furore antico”. Più Marx che Zuckerberg. Poi si sa che l’eventuale matrice delle rivoluzioni non può che essere multifattoriale e tenere conto necessariamente di più variabili.

Sulla manipolazione delle emozioni, infine, non sarà inutile ricordare lo smilzo ma stimolantissimo saggio di Valerio Magrelli, “Il Sessantotto realizzato da Mediaset”, Einaudi, 2011, che si è proposto di spiegare come Silvio Berlusconi, con Mediaset, sia riuscito a portare l’immaginazione al potere realizzando così il sogno del ’68. In questo sogno, in questo delirio, la maggioranza degli italiani ha preferito proteggere i suoi interessi immaginari piuttosto che quelli reali. Un’ipnosi. Le coscienze degli italiani limate giorno per giorno in questi anni tristi di pagliacci e di lacché, di leggi infami e di lavoro che non c’è (per dirla con Corrado Guzzanti). Una infantilizzazione e un rimbambimento collettivi dai quali siamo usciti in questi giorni con un risveglio amaro, amarissimo. A conforto e a confronto invito alla lettura anche del libro di F. Cordero, “L’opera italiana da due soldi”, Bollati Boringhieri, un racconto degli anni di Berlusconi che si mescola a quello dei caratteri nazionali degli italiani. Dalla retorica al servilismo, dalla spavalderia alla viltà, dalle menzogne alla fuga dalle responsabilità, combattiamo i nostri difetti.

                                                                                  Gennaro Cucciniello