Ecco perché gli antichi erano uomini d’odore. Storia dei profumi.
Dagli unguenti degli Egizi all’incenso di Mosé e Aronne, fino ai Greci e ai Romani che associavano i profumi agli dèi: un libro di Giuseppe Squillace, “Il profumo nel mondo antico”, ripercorre questa fragrante storia.
“Quando qualcuno mi chiede come mai, dopo aver studiato filosofia antica, sono diventato profumiere, rispondo sempre così: continuo la ricerca dell’essenza”. Queste parole di Lorenzo Villoresi, celebre artigiano fiorentino, sono particolarmente adatte a descrivere il misterioso e affascinante universo nascosto dietro la creazione delle fragranze, che da quasi sette millenni pervade la storia degli uomini. Come oggi racconta “Il profumo nel mondo antico” (Olschki), il bel libro di Giuseppe Squillace, professore dell’Università della Calabria.
Incenso, mirra, nardo, rosa, zafferano, maggiorana, cardamomo, cinnamomo, però, prima di diventare ingredienti alla base di pregiate fragranze, erano parte dell’offerta degli uomini agli dèi: presso tutti i popoli, infatti, il profumo –termine non a caso derivato dal latino per fumum o pro fumo, che indicava il fumo delle offerte che saliva alle divinità- serve da intermediario tra uomo e dio. Gli egizi, popolo a cui la storia del profumo si lega indissolubilmente, impiegavano le sostanze aromatiche in tutti i rituali, in particolare nella celebre pratica dell’imbalsamazione, ma non solo. I geroglifici nel tempio della regina Hatshepsut raccontano di una spedizione nella leggendaria Terra di Punt, regione che dovrebbe corrispondere all’attuale Somalia del nord, e che nelle iscrizioni egizie è chiamata sia “terra degli dèi” che “terra dell’incenso”. Nella Bibbia anche il Libro dei Re cita Punt come fonte di incenso ma anche di mirra, resine, ambra, agata verde, lapislazzuli, oro, avorio, ebano e altri legni pregiati. Nell’Esodo, poi, Dio ordina a Mosè di costruire un vero e proprio altare dei profumi, sopra cui Aronne dovrà bruciare ogni mattina e ogni sera l’incenso, che sarà “profumo quotidiano davanti al Signore, di generazione in generazione”.
La lezione dei popoli orientali si trasmise anche in Occidente, in Grecia e successivamente a Roma, dove, prima di essere parte della vita quotidiana, i profumi popolano le relazioni tra dèi e uomini. Come nel mito di Mirra che, incestuosamente innamorata del padre Cinira, riuscì con l’inganno a giacere con lui: quando se ne accorse, Cinira cercò di ucciderla con la spada, ma Mirra, piangendo, chiese aiuto agli dèi, che la trasformarono nell’omonimo albero dalla cui corteccia nacque lo splendido Adone. Il legame tra sostanze aromatiche, bellezza, giovinezza, amori proibiti e morte ritorna in molti altri miti: da Mente, ninfa degli inferi trasformata nella pianta profumata della menta per la gelosia di Persefone, a Dafne, tramutata in alloro per sfuggire ad Apollo; da Leucotoe, sepolta viva per la gelosia di Clizia, ma cosparsa di nettare profumato e trasformata in incenso dal Sole (“almeno giungerai fino al cielo”), fino al bellissimo Ciparisso che, dopo aver trafitto per sbaglio il suo amato cervo con un dardo, chiese disperato ad Apollo di poter “piangere senza limite di tempo”, come racconta Ovidio. Impietosito, il dio lo trasformò nell’albero della tristezza, il cipresso, “che drizzandosi puntava con la cima sottile verso il cielo stellato”.
Il trucco del mestiere. Del resto gli dèi avevano un loro peculiare profumo: era quello, per i greci, il segno della loro presenza. E non a caso è proprio un greco, Teofrasto di Ereso, discepolo di Aristotele, il primo ad affrontare il tema in modo scientifico con un trattato, “Sugli odori”, che il libro di Squillace propone per la prima volta in traduzione italiana. Sia Platone che Aristotele avevano accennato alla questione, ma Teofrasto è il primo a interessarsi anche agli aspetti tecnici: l’estrazione delle essenze, la loro composizione, le loro proprietà terapeutiche. Con informazioni e notizie desunte sia dai racconti di chi aveva partecipato alle spedizioni in oriente di Alessandro Magno sia dalle visite dello stesso autore alle botteghe dell’agorà. Il suo è un vero e proprio manuale della profumeria antica, che cita anche nomi degli artigiani dell’epoca e dei loro profumi: come il megalleion, creato appunto dal profumiere Megallos, che conteneva una grande quantità di ingredienti preziosi e aveva costi considerevoli, o il daphninon, il profumo all’alloro, più a buon mercato perché estratto da una pianta molto diffusa.
In un capitolo Teofrasto riporta anche un segreto del mestiere che gli avevano confidato i profumieri ateniesi: quando un cliente entrava nella loro bottega ma restava indeciso e non acquistava nulla, loro lo cospargevano comunque di profumo di rosa, per impedirgli di comprare dai concorrenti. Data la sua leggerezza e gradevolezza, il profumo di rosa – che secoli dopo sarà celebrato anche da Shakespeare in “Romeo e Giulietta”, “ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo”– penetra infatti nei canali sensoriali, occupandoli totalmente, tanto che l’olfatto non riesce a percepire altro. Lo dirà bene anche negli anni ’80 del Novecento Patrick Suskind nel suo romanzo bestseller “Il profumo”: “Gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, davanti alla bellezza, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Colui che dominava gli odori, dominava il cuore degli uomini”.
La lezione dei profumieri ateniesi raccontata da Teofrasto arriverà a Roma, soprattutto attraverso Plinio il Vecchio che nella sua “Storia naturale” fece un’ampia sintesi del trattato di Teofrasto. La febbre dei profumi contagiò imperatori come Nerone, che spese milioni di sesterzi per spargere sui suoi invitati una pioggia di petali di rosa bagnati della sua essenza preferita. Ma anche più insospettabili condottieri come Cesare, che si avvolgeva nelle note profumate del telinum, un unguento oleoso ricavato da fieno greco, maggiorana e meliloto. Forse persuaso da Cleopatra, che profumava le vele delle sue navi prima delle battaglie: ed erano così fragranti, scrisse Shakespeare, “che i venti erano malati d’amore per loro”.
Barbara Castiglioni
Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 settembre 2020, alle pp. 100-101.