Storia del sapone e della saponetta
Per anni era diventata un oggetto a cui nessuno badava più. Ma oggi, come alla fine dell’Ottocento, è tornata a rappresentare uno dei simboli della civiltà. E un presidio sanitario. Profumatissimo.
Il coronavirus cambierà tutto. Probabile. Ma in attesa di capire che ne sarà della pacca sulla spalla o del capitalismo, una cosa già adesso non è più come prima: il nostro modo di lavarsi le mani. Almeno quaranta secondi, come dice lo spot Pampers uscito in queste settimane, oppure canticchiando due volte Happy Birthday come suggerisce il premier inglese Boris Johnson, sfregando bene, intrecciando le dita sopra e sotto… e soprattutto riscoprendo l’antico, dimenticato, semplice sapone. Alzi la mano chi pensava che, nel nostro tripudio di elettronica e tecnologia, ci saremmo aggrappati a quest’unica certezza. Liquido, igienizzante, detergente, chiamalo come vuoi. Resta il fatto che, mentre la modernità è sotto scacco, torna protagonista un’invenzione risalente ai tempi di Cleopatra e dell’Antico Testamento, quando si chiamava liscivia, ed era fatto con cenere e soda. Perché sì, un po’ come il virus ma infinitamente più gradito, il sapone ha una storia globale da raccontare.
Bisogni primari.
La sua è l’avventura di una merce universale, che passa tra culture e popoli. E quando cerchi di definirla, scivola. Per esempio, poche settimane fa ha impressionato leggere che i profughi siriani rifugiati al confine con la Turchia non avessero neanche sapone per lavarsi. Vedi alla voce bisogno essenziale. Ma sapere che proprio nella loro martoriata città di Aleppo è nato e si produce ancora il più rinomato sapone dell’antichità, a base di alloro e olio di oliva, prediletto dai romani, dà l’idea di quanto grande sia la violenza abbattutasi su quel popolo. Vedi alla voce storia, identità, memoria.
Eppure, altra giravolta, nell’Ottocento il sapone diventò sinonimo di superiorità occidentale. Una delle primissime marche industriali, Pear’s Soap, lo pubblicizzò addirittura come arma di civilizzazione: tu, uomo bianco, porti sulle spalle un fardello di usi e costumi esemplari da insegnare ai primitivi, e lì dentro c’è anche il prezioso detergente americano. Lo spunto era una poesia di Kipling, ma diventò una campagna che parlava al mondo intero. Proprio come faceva l’industria del sapone, i cui numeri allora esplosero insieme alla società di massa.
La città del bucato
Basti pensare a cosa scatenò Sunlight Soap, il primo sapone per bucato confezionato. Lanciato nel 1884, in pochi anni il suo successo fu tale –e gli operai necessari così tanti- che si dovette fondare una città intera per produrlo. Città che esiste ancora, è nei pressi di Liverpool e manco a dirlo si chiama Port Sunlight. Come se in Italia esistesse Villa Citrosodina o Casal Nutella. Il prodotto si meritò anche il primo video pubblicitario della storia, girato nientemeno che dai fratelli Lumière nel 1896 e con tutti gli ingredienti degli spot attuali: massaie che si divertono a fare il bucato, la marca bene in evidenza davanti all’obiettivo, fanciulli che si aggirano per far tenerezza… e cosa dire della durata del filmato, magicamente identica allo standard della pubblicità televisiva di oggi. Trenta secondi esatti. Destino.
Era il trionfo di un tipo di sapone nuovo, a basso costo e popolare, che cambiava la vita e l’igiene personale di milioni di persone in tutto il mondo. Il volto migliore della rivoluzione industriale. Nel paniere del consumismo, il sapone per le masse sarà da allora inattaccabile anche agli occhi del più accanito nemico del libero mercato. E la pubblicità racconterà la sua allegria, la realtà colorata che si spalancava, la schiuma e i profumi, con i bambini nelle tinozze, le parole nuove e benvenute –clean, purify, delicate-, le donne orgogliose di panni bianchissimi. Intanto l’onda commerciale era arrivata anche dalle nostre parti. Nel 1900 un’imponente Esposizione d’Igiene a Napoli fu annunciata con grandiose affiche liberty. Più igiene per tutti, si direbbe oggi: la persona, la casa, l’alimentazione e il lavoro, l’Expo campana ricordava al Paese che c’era molto da lavare, strigliare, far splendere. Sapone e popolo inseparabili anche in trincea, come in quella stupefacente pubblicità del 1915 nella quale le truppe inglesi sono definite le più linde della prima guerra mondiale grazie al loro fido alleato, la cassa di saponette. Guerra igiene del mondo, dicevano i futuristi. Ma all’igiene sponsor della guerra non avevano pensato neanche loro.
Tempi difficili, quelli e anche un po’ questi, quando si stabilisce un nesso tra lavarsi le mani e salvarsi la vita contro il coronavirus. Ed eccoci nell’attualissimo, ahinoi, mondo della profilassi. Di recente Google ha celebrato con un banner pubblicitario Ignàc Semmelweis, lo scienziato ungherese che aveva scoperto come ai chirurghi, per salvare vite, bastasse semplicemente lavarsi le mani prima di operare. Nel 1865 era morto da solo, in un ospedale psichiatrico, incompreso e osteggiato dalla comunità medica e scientifica. E qui il detergente diventava altro ancora: scienza, cura, sopravvivenza. Insomma, più che un sapone, un prisma. Lo vedi lì accanto al rubinetto e non sospetti in lui la conferma di ciò che gli studiosi chiamano umiltà degli oggetti. Più sono silenziosi, trascurati, persino invisibili, e più hanno il potere di fare grandi cose.
Seduttrici e lavandaie
Arriva anche il momento in cui le sue strade si dividono: di qui il sapone da toilette, raffinato, per signore, di là quello per bucato e piatti. Da un lato “Una pelle che ami toccare”, come recitava nel 1910 la campagna del sapone Woodbury’s, mostrando gentleman che carezzavano i volti delle dame. Oppure “il sapone delle stelle”, come diceva la campagna Lux con le dive del cinema (Ava Gardner), che negli anni Venti aveva come testimonial le aspiranti attrici, linde più che mai in attesa del provino. Dall’altro lato, quello delle massaie popolari. Il nostro multiforme prodotto aveva in serbo un’altra trasformazione: la storia a puntate, o meglio la soap opera, così chiamata proprio perché nata in programmi sponsorizzati dalle più note marche di sapone. Tutto iniziò in radio negli anni Trenta: Procter&Gamble per dirne una inventò “The Guiding Light”, che proseguì in tv fino al 2009. Il nome vi dice poco? E se aggiungiamo che in Italia si chiamò Sentieri? Storie d’amore, personaggi, passioni: non solo schiuma, profumi e piatti puliti. Anche sogni e balocchi.
Che tanfo il fatto in casa
Poi tornò la guerra, e il sapone sparì dalla circolazione, tornando oggetto del desiderio. Sui nostri giornali di regime le rubriche per le casalinghe consigliavano di fabbricarselo in casa, con ossa d’animale sciolte in acqua e soda. Proponevano però anche di aggiungere due foglie di alloro, per smorzare il tanfo inevitabile. Ma gli americani sapranno riconciliare il Paese con un benessere più gradevole all’olfatto.
Non a caso le campagne degli anni Sessanta pubblicizzano saponette deodoranti, che ci profumino per tutto il giorno e si occupino della traspirazione, oltre a detergere. E’ l’epoca delle linee: ogni marca propone la gamma intera di prodotti, bagnoschiuma, shampoo, detergente, Camay, Felce Azzurra, Borotalco… e da lì in poi l’oggetto-sapone si inabissa, perde protagonismo, diventa puro quotidiano. Tace, porta pazienza. Aspetta. E oggi rieccolo, di nuovo pronto a darci una mano. Anzi tutt’e due, per almeno quaranta secondi.
Giuseppe Mazza
Articolo pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 10 aprile 2020