Storia delle puttane. Non facciamo gli ipocriti.
Dalle cortigiane alle sex workers, passando per secoli di sfruttamento e doppia morale. Marzio Barbagli ricostruisce in un saggio poderosissimo le evoluzioni della prostituzione.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 30 ottobre 2020, alle pp. 106-107, è pubblicato questo articolo di Michele Smargiassi.
Cosa fosse la doppia morale, lei lo aveva capito senza aver studiato. “io sono prostituta, ma i padroni erano come me e pegio e si facevano sempre cornuti fra elli”. Violentata, cacciata di casa, schiaffata nel bordello, quando il 27 gennaio 1951 scrisse una straziante richiesta di aiuto alla signora deputatrice Lina Merlin, già impegnata a scrivere la legge di chiusura delle case chiuse (che sarebbe stata approvata, con fatica, solo sette anni dopo), quella pubblica moglie ebbe il coraggio di firmarsi con nome e cognome. Ma per tutti era solo “una di quelle”. “Quelle”, eufemismo da anni ipocriti, del si fa ma non si dice. In alternativa si usavano paroline singolarmente insensate: mondane (di che mondi?) , o donne di vita (ma quale vita?). Ma quelle era il culmine del disprezzo, pronome dimostrativo zoppo, parola non autosufficiente proprio come loro, schiave di un piacere altrui, quelle cosa? Bé, quelle… ammiccamento a una quantità di nomi ipocriti, dal beffardo signorine al più crudo puttane.
Ma le confessioni dolorose che centinaia di Traviate scrissero alla senatrice Merlin sono solo parte di una lunga storia, così lunga che il suo oggetto, la prostituzione, è passata nel senso comune come “il mestiere più antico del mondo”. Anche questo però, se vendere il corpo sia un mestiere, fa parte del problema più che della spiegazione: sono secoli che il giudizio etico sul sesso mercenario spacca le coscienze e le ideologie, divide i reazionari ma anche i rivoluzionari, i bigotti ma anche le femministe, i ricchi ma anche i poveri e, naturalmente, i maschi come le femmine.
Con la documentata e laica razionalità che contraddistingue da anni il suo lavoro di sociologo e storico della mentalità, Marzio Barbagli ha rimesso al loro posto giudizi e pregiudizi, fatti e credenze, nel voluminoso e appassionante (e anche disturbante: rivedrete molte posizioni scontate dopo averlo letto) “Comprare piacere. Sessualità e amore venale dal Medioevo a oggi”, il Mulino, pp. 672, euro 36. Per arrivare a una conclusione che forse dà torto a tutti: se la prostituzione è in declino (e lo è, dati alla mano, a dispetto di tutto, anche negli anni bunga bunga) il merito non è stato certamente delle ricette opposte con cui si è tentato di domarla per secoli, ovvero la regolazione e la repressione (incluse le rispettive versioni più attuali: liberalizzazione del sex work e punizione dei clienti).
Apparentemente opposte, quelle reazioni si sono in realtà alternate freneticamente nel corso dei secoli, secondo la bilancia delle convenienze (per sant’Agostino la prostituzione era un male necessario) e delle paure (la sifilide, terrificante nemesi della lussuria), ma condividevano un’idea di fondo, quella sì inalterabile dal tempo: che la prostituzione esista per colpa dell’offerta e non della domanda. Insomma, che sia una scelta delle donne, costrette dalla povertà, ma volentieri spinte dalla loro innata dissolutezza, dalla voracità della libido di quel loro utero, bestia feroce e ingorda. Mentre la sessualità maschile, si sa, ha solo un bisogno naturale e sano di sfogare ogni tanto la propria impellenza idraulica. Così, dopo tutto, le meretrici fanno comodo, il loro peccato è servizievole. Ed ecco la storia, a volte poetizzata, mai molto indagata dei bordelli di Stato, municipali e anche vaticani, scuole di svezzamento ormonale per i figli della buona società, chiostri di novizie del piacere; dei marchi di infamia, i nastri gialli, i sonagli per identificare e scansare (di giorno…) la mulier vana; di quelle salmerie mai riconosciute ma sempre presenti nelle retrovie di tutti gli eserciti, tende piene di femmine al servizio del riposo del guerriero. Ancora più taciute dagli storici, le umiliazioni e le beffe atroci: chi ha mai sentito raccontare la storia del palio delle prostitute, spettacoli infami dove la gran bontà de’ cavallieri antiqui si prendeva gioco di povere donne trattate come animali da circo?
Certo, una cosa erano le donne pubbliche, di strada e di lupanare, un’altra le cortigiane che amministravano i propri gioielli indiscreti come beni di lusso. Ma era differenza di grado, non di concetto. Al fondo, mai messa in discussione, la presunta naturale asimmetria della relazione fra i sessi. E dire che sia esistita la prostituzione maschile (di cui pure Barbagli traccia una storia anch’essa troppo a lungo imbarazzante) non cambia le cose: anche qui i clienti sono sempre stati in stragrande maggioranza maschi, e il modello ugualmente squilibrato.
Ma se nell’Ottocento, “secolo di puttane” per Flaubert, quella naturalità sembrava travolgente, nel Novecento è successo qualcosa. In Italia, ad esempio, nel 1965 i maschi che avevano avuto rapporti mercenari erano ancora il 71%, ma 40 anni dopo un’inchiesta registrò un crollo al 15%, che gli stessi sociologi faticarono a spiegarsi. In quel tempo, infatti, il pensiero democratico aveva elaborato la sua teoria della libertà delle donne di gestire il proprio corpo: il problema, si diceva e ancora si dice, è lo sfruttamento e non la vendita: anche l’operaio vende le proprie braccia al padrone, no? Una logica liberista e contrattualista che ha fatto breccia anche in un settore del femminismo libertario.
Ma nel frattempo, sorpresa, i maschi italiani avevano iniziato a fare meno acquisti di servizi genitali sui marciapiedi. Nessun particolare sussulto perbenista, e neppure troppa paura dell’Aids. Se una schiavitù esiste ancora per migliaia di donne vittime della tratta, si presenta come un sopruso ormai nudo, che fa sempre meno ricorso a giustificazioni ideologiche, biologiche o morali. Molto più semplicemente, conclude Barbagli, la progressiva conquista, da parte delle donne, dell’eguaglianza anche nella sfera sessuale, della libertà di gestire le proprie relazioni amorose, ha avviato tutte e tutti verso la liberazione, silenziosa ed efficiente, dalla sovrana ipocrisia della doppia morale, una per gli uomini, una per le donne. Pillola e femminismo hanno mandato in pensione un quadro mentale mai seriamente messo in discussione per secoli, se non da qualche grande riformista ante litteram come l’Ariosto, che già 500 anni fa si chiese “perché si de’ punir donna o biasmare / che con uno o più d’uno abbia commesso / quel che l’uom fa con quante n’ha appetito / e lodato ne va, non che impunito?”.
Michele Smargiassi