E’ tutta un’altra storia dell’Italia
Il 16 novembre 2017, per i tipi di Laterza, esce nelle librerie la “Storia mondiale dell’Italia”, un volume curato da Andrea Giardina, con la collaborazione di Emmanuel Betta, Maria Pia Donato e Amedeo Feniello e i contributi di storici e studiosi italiani e stranieri.
Il libro ricostruisce cinquemila anni di storia dell’Italia in 180 tappe: ogni tappa corrisponde a un evento utile per rileggere la lunga evoluzione dell’identità italiana nei secoli. Vi si racconta il Paese Italia da una prospettiva nuova: è il ritratto di una nazione ricca di lingue, religioni e culture diverse. “Siamo un caso unico nel mondo”, spiega Andrea Giardina a capo del progetto. Qui si pubblica un articolo di commento di Simonetta Fiori, pubblicato nel supplemento “Robinson” del quotidiano “La Repubblica” di domenica 12 novembre 2017, pp. 13-4
Gennaro Cucciniello
Una storia come questa non ci era mai stata raccontata. E non è un modo di dire. Perché alla fine delle oltre ottocento pagine di questo volume ci si accorge che il Paese scolpito nella nostra testa non è più riconoscibile, è diventato un’altra immagine, non più solo lo stivale allungato dalle Alpi a Lampedusa per oltre cinquemila anni di splendori e miserie, ma un’Italia piena di mondo, un miscuglio di genti, lingue e modi di vita che si irradia oltre i confini soliti fissati dalla geografia. Senza paragoni nel globo.
L’operazione in fondo è semplice, ma prima di Andrea Giardina, dei suoi collaboratori Emmanuel Betta, Maria Pia Donato, Amedeo Feniello –e della sua squadra di 170 ricercatori, per larga parte giovani e accademicamente precari- da noi nessuno ci aveva provato. Basta allargare lo sguardo, salire sempre più in alto, e alla fine rovesciare il cannocchiale: tutto ciò che è stato importante solo per la storia nazionale finirà per rimpicciolirsi mentre al contrario sono destinate a giganteggiare le proiezioni del mondo dentro la nostra storia e della nostra storia nel mondo. Per la cittadella degli storici è una rivoluzione copernicana, ma non solo per loro. L’artefice di questo rovesciamento è un professore della Scuola Normale, l’antichista Andrea Giardina, che da tempo colleziona incarichi prestigiosi alla guida della Giunta Centrale per gli Studi Storici e alla presidenza del Comité International des sciences historiques. Il suo cursus honorum è immune da ogni forma di temerarietà intellettuale, ma di fronte alla nuova sfida dell’opera laterziana, a ricalco della Histoire mondiale de la France, lo studioso non si è tirato indietro. “Sono convinto che gli italiani abbiano bisogno di un elettrochoc”, racconta tra i legni antichi del palazzo della Giunta Centrale. “Possiamo continuare a discutere ancora per molto di mafia, camorra, corruzione, Nord e Sud, e dei guai che sappiamo? E allora, escludendo guerre e rivoluzioni, la guarigione può arrivare soltanto dal contatto con gli altri. Dove gli altri non sono solo gli immigrati, ma il mondo con la sua sfida complessa”. Per fare questo però dobbiamo conoscere la nostra secolare capacità di interagire con popoli, etnie, culture, religioni diverse. Ecco che la Storia mondiale dell’Italia –oltre a essere una godibile raccolta di racconti in 180 date, dal 3200 a.C. al 2015- si configura come una preziosa guida civile, utile per maturare una nuova consapevolezza di italianità. O, per riprendere l’immagine del prof. Giardina, la preparazione più indicata per una salutare scossa elettrica.
Da dove si comincia? La prima operazione è stata mettere in soffitta la vecchia cassetta degli attrezzi forgiata dalla storiografia nazionale, un modello ottocentesco risorgimentale prediletto sia dalla cultura liberale che dalla storiografia marxista e adottato tenacemente fino a tempi recenti anche come reazione culturale alle minacce separatiste di fine ‘900. Metter via paradigmi rassicuranti per aderire ai criteri della global history non è un passaggio di poco conto, che potrà suscitare anche scandalo: sono i rischi corsi da un’opera che vuole “disorientare la storia”, secondo una felice immagine di Patrick Boucheron, il curatore dell’impresa gemella. Chi vuole misurarne la portata eversiva dovrà andare a cercare il 1861 –l’anno dell’unità d’Italia- tra le date spartiacque della nuova Storia mondiale: non ne troverà traccia, se non en passant all’interno del racconto. Al suo posto, un brillante saggio di Alberto Maria Banti che butta giù dal basamento i busti risorgimentali riducendo l’amor patrio di Cuoco e Foscolo, D’Azeglio e Mameli ad arcigna custodia di un “nazionalismo geloso e sempre più esclusivo”.
Non è l’unico esempio di dinamite cosparsa sulla retorica tradizionale. Tra le pietre miliari di questa storia manca anche il 476 d.C. –caduta dell’impero romano d’Occidente- perché secondo i curatori è molto più interessante guardare la successiva convivenza tra goti e romani. E per parlare di un’epoca a noi più vicina, qualcuno certo inarcherà il sopracciglio perché il capitolo sul fascismo in Italia è stato sostituito da un altro non meno importante sull’invenzione italiana dei fascismi nel mondo (l’altro brevetto esportato riguarda la telecrazia di Berlusconi: il lettore potrà trarre le valutazioni del caso sul nostro discutibile estro nel campo dell’ingegneria politica).
Forse è già abbastanza chiaro che chi si immerge in questa storia deve dire addio a un racconto confortante e teleologico, dove le costanti si ripresentano immutate nel tempo e da un principio si arriva con coerenza fino alla fine. “L’Italia è il reame della asincronia”, spiega Giardina che ama inerpicarsi tra le stravaganze della storia. La vitalità dei classici e del diritto romano sopravvive alla caduta di Roma e le luci del barocco lampeggiano nel bel mezzo d’una gravissima crisi economica e politica”. Miseria e nobiltà insieme, nel trionfo di ritmi sincopati e imprevedibili asimmetrie. Però a evitare di perdersi in questo turbinoso labirinto del passato un filo d’Arianna bisognerà pur trovarlo. Ed eccoci arrivati al cuore della nostra storia mondiale, a una specificità che è soltanto italiana. “Nessun paese al mondo ha un rapporto così ricco tra spazio geografico ristretto e miscuglio di etnie, lingue, religioni e culture diverse, sia in uno stesso momento storico che nello scorrere del tempo”, dice Giardina. “Chi altro nell’antichità ospitava greci, etruschi, fenici, celti, diversi popoli italici, indoeuropei e non indoeuropei? E più tardi ha arricchito il quadro con presenze ispaniche, germaniche, francesi e musulmane? Questa storia di culture stratificate e coesistenti si è ripetuta nei secoli: un caso unico nella storia mondiale”.
Concentrarsi su questo caleidoscopio significa liberarsi dai vecchi complessi di minorità rispetto a Stati più forti, più antichi e più culturalmente omogenei. “La nostra debolezza diventa una forza”, dice lo studioso. “L’unità della storia italiana non si definisce più nell’incompiutezza, ma consiste nel suo contrario, nel poliformismo e nella pluralità”.
La pianteremo con la solita lagna sulla nostra fisionomia fragile, figlia di una nascita tardiva e complicata. E parole come “radici, identità, eredità” ci appariranno retoriche e fuorvianti. “Le radici rappresentano una metafora razzista, secondo un’illuminante indicazione di George Mosse: la razza è paragonata a un albero, essa non muta. E le radici della pianta sono sempre le stesse. Così come le eredità del passato sono viste come un patrimonio immodificabile, da custodire perfettamente intatto”. Basta anche con “l’eugenetica storiografica” che relega i fallimenti nel magazzino cattivo della storia. “Un popolo sta in tutta la sua vicenda, anche nelle miserie da cui è uscito, nei misfatti redenti e non riconosciuti”. La Storia mondiale indugia senza reticenze sui crimini in Africa e nei Balcani, perché quella degli “italiani brava gente” è un’impostura che ha resistito troppo a lungo. E conoscere il nostro lato peggiore può aiutare a migliorarci. Così come non mancano gli stereotipi attraverso cui gli altri ci guardano –“cicisbei, criminali, traditori, mafiosi, latin lover, mandolinisti, avventurieri”– perché anche l’antiretorica nazionale del “siamo nati così, che ci possiamo fare?” finisce per essere una litania rassicurante, che ci fissa ineluttabilmente nei nostri difetti. Ma una volta liberata dalle sue mille zavorre, che immagine dell’Italia viene fuori? “Anche nei momenti apparentemente più chiusi e più claustrofobici c’è sempre una dimensione dialogante col mondo”, sostiene Giardina. “E questo deriva da un’altra caratteristica unica del nostro Paese che ha avuto nella sua storia due tra i più straordinari fenomeni di universalismo mai conosciuti: l’impero romano e la Chiesa cattolica, che è una realtà ancora viva”. Ed è proprio questa vocazione universalistica della penisola ad aver favorito il lavoro degli storici italiani, meno esposti dei colleghi francesi alle aspre polemiche da orgoglio nazionale ferito provocate dall’Histoire mondiale. E gli italiani? Dopo una così lunga ricerca abbiamo capito chi sono? “E’ un popolo ricco di straordinarie risorse, ma oggi completamente smarrito”, risponde sconsolato Giardina. “Gli italiani non sanno più chi sono. E dunque al contatto con gli altri, migranti ma non solo, reagiscono con una paura eccessiva”. E allora bisognerà sorprenderli con una storia che non conoscono, fatta di sangue misto e di promiscuità. Prima di salire tutti insieme sul lettino del neuropsichiatra per un elettroshock collettivo. Che, sia detto tra parentesi, fu l’invenzione di due scienziati italiani. Superfluo domandarsi come mai.
Simonetta Fiori