Questo è il testo d’una lettera scritta ai miei studenti di liceo sperimentale, nella primavera del 1996, dopo una visita d’istruzione interessante e movimentata.
Lettera aperta agli studenti della III-A e della III-E
“Sull’irresistibile leggerezza e sul fascino delle gite d’istruzione
Sono sempre convinto che l’adulto-docente debba fare il controcanto ai giovani studenti; sempre spiegare, motivare, riconfermare le proprie posizioni (se si pensa che siano corrette), correggerle (se sbagliate), capace del coraggio della solitudine, senza musoneria né eccessivi rimproveri, con autoironia e “co’ à capa fresca” (come dicono a Napoli).
Ora sulla gita ad Assisi e dintorni non c’è stata una valutazione concorde tra noi docenti accompagnatori. Angela De S., Antonio G., Luciano P. e Michela M. –pur fra distinguo- hanno voluto sottolineare una vostra positiva capacità di reazione alle sollecitazioni culturali e una buona, se pur a volte travolgente, socialità. Io, invece, voglio ancora farvi notare alcune contraddizioni, pur valutando positivamente il significato complessivo e il tono dell’esperienza. La mia vuole essere una sorridente provocazione e vuole aprire una discussione serena tra tutti noi anche su questo ordine di problemi.
La qualità culturale della gita. A tutti era chiaro il fine culturale della visita in Umbria: vedere direttamente, in un’esperienza sul campo, e in rapida sequenza temporale, due monasteri eremitici (l’uno francescano, la Verna, l’altro benedettino, Fonte Avellana, entrambi di intensa spiritualità) e compararne la struttura e il respiro storico; accostare chiese romaniche povere, terragne, quasi abbandonate all’ombra e al silenzio (Bevagna, San Leo) a chiese cittadine, splendenti, rilucenti di marmo e di affreschi (Assisi, Spello); passeggiare borghi e città medievali, conosciuti solo in astratto sui libri di storia e di arte, e vederne da vicino lo spessore degli spazi e la dimensione quotidiana.
Alberto e Luca, sollecitati ad esprimere un giudizio, mi hanno detto: “Troppe chiese, poche strutture produttive”. E’ una valutazione non risibile, interessante, ma non si va in Umbria per indagare sulle corporazioni artigiane o sul paesaggio agrario. Per questo Venezia e il Veneto sono miniere inesauribili e vanno benone. In Umbria si va per cogliere il misticismo francescano e la sensibilità religiosa di un Medioevo che trasforma in amore purissimo lo scandalo di un Dio che si fa uomo a prezzo di umiliazione e morte, un cristianesimo che –anche se con le mercificazioni turistiche inevitabili- in quei paesi si riesce ancora ad afferrare, pur se a brandelli. Per respirarlo, però, bisogna essere concentrati, attenti, in sintonia spirituale e psicologica con quegli spazi e con quelle atmosfere.
Del resto perché, in una programmazione scolastica, preparare ed organizzare momenti di ascolto musicale, rappresentazioni teatrali, proiezioni cinematografiche, visite a musei-chiese-città-campagne, occasione di performance poetiche? Si offrono questi stimoli e suggestioni per consentire di entrare il più possibile nella psicologia quotidiana (fantastica ed insieme materialmente elementare) dell’epoca studiata, per coglierne le sfumature, per scoprire della realtà i lati più nascosti – i significati meno limpidamente espressi con le sole parole: in sintonia con uno studio che esalti la lentezza, la profondità, il gusto dei dettagli e degli incroci, il gioco dei contrasti e dei chiaroscuri. Si costruisce una rete di relazioni tra le discipline scolastiche, reticolo che solo permette di accostare i suggerimenti di processi intellettuali diversificati e di costruire legami concettuali e linguistici interessanti tra l’immaginario artistico e i processi storici.
Le relazioni psico-sociali. La notte studentesca è stata il regno delle energie diffuse: voglia di chiacchierare, di scherzare, di trasgredire, tutti beatamente dimentichi che “la libertà di ognuno finisce dove comincia la libertà degli altri”. Tutti concentrati solo su se stessi e sulle proprie gioie, attenti alle sole dinamiche adolescenziali di gratificazione e di riconoscimento, indifferenti –se non il giorno dopo- alle sdegnate “orazion picciole” degli arrabbiati professori, arciconvinti che gli adulti accompagnatori siano sempre felici e tolleranti e obbligati a partecipare. E i prof, d’altro canto, che –per accompagnare in gita i loro simpatici e scapestrati studenti avevano anche trascurato precise indicazioni sindacali che invitavano al boicottaggio delle visite d’istruzione- hanno continuato ad illudersi di poter fornire strumenti, attivare idee, suggerire autonomia critica, allenare al rodaggio e alla fatica e –perché no- al piacere dell’esperienza intellettuale. Hanno continuato a credere di poter distribuire inquietudini, solleticare dubbi, porre domande, dare pugni in faccia alle coscienze perché s’interroghino, scavalchino i pregiudizi. Hanno continuato a pensare, gli stolti, che la classe, anche in gita, debba essere una comunità in cui l’interscambio delle idee è vivo, in cui si litiga, ci si confronta, si passano le informazioni. E si impara. E questo costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per ottenerla.
Ecco, questo dovrebbe essere il consuntivo comune a tutti della gita: felicità di momenti non più ripetibili, impegno e contraddizioni dell’apprendere, sensazioni gioiose e dolorose, un conoscersi e un rispettarsi e uno stimarsi che si sono consolidati. E su queste basi essere pronti a riprovare e a cambiare…
Un saluto cordiale,
prof. Gennaro Cucciniello
Mestre, 29 marzo 1996