Tolstoj: il sentimento della storia.

Tolstoj: il sentimento della storia

Il solo modo di conferire agli eventi della storia un valore, sebbene per natura ingannevole, è l’arte.

 

Per anni ignorate, considerate il tallone d’Achille di un’epopea romanzesca senza precedenti, da qualche tempo la trentina di pagine che chiudono “Guerra e pace” hanno conosciuto un’insperata rivalutazione, soprattutto per l’intercessione di studiosi di area liberale come Isaiah Berlin e il nostro Nicola Chiaromonte. E mi pare che tanto più oggi, con quello che sta succedendo, vadano riproposte e meditate per gli interrogativi ineludibili che sono ancora in grado di sollevare, e per la frustrazione di cui sono il prodotto.

Immagino che la diffidenza dei filosofi della storia nei confronti delle idee di Tolstoj derivi da tre problemi solo apparentemente in conflitto ma in realtà correlati:

Il tono schietto, a tratti ingenuo, se non proprio dilettantesco, con cui Tolstoj le espone. Sembra quasi che un’urgenza didascalica lo induca a corredare le sue argomentazioni di esempi tratti dalla vita, esperienze comuni in cui è facile identificarsi. La smania tolstoiana di comunicare al mondo il suo punto di vista nella forma più spontanea e diretta –come se parlasse a un bimbo o a uno dei suoi contadini- rischia di suscitare nel filosofo di professione un moto di ripulsa tanto comprensibile quanto pernicioso. E’ vero, ci sono temi che richiedono un approccio guardingo e un linguaggio adeguato, ma è di Tolstoj che parliamo. Non ha senso leggere “Guerra e pace” ignorando il rovello morale e filosofico che l’ha ispirato. A dispetto di ciò che evidentemente pensava chi ha operato tante mutilazioni a un’opera così complessa e stratificata, nel mondo tolstoiano non c’è pace senza guerra. Come ha notato Chiaromonte, il fine che Tolstoj si prefiggeva era “mostrare il vero rapporto tra il fatto individuale e quello collettivo, l’evento locale infinitesimo e quello globale, “storico””.

A fronte di tanta schiettezza argomentativa, non si capisce dove Tolstoj voglia andare a parare. La sua esigenza di confutare le idee altrui è talmente implacabile che, quando deve proporre una coerente idea della storia, tentenna, s’impappina, in bilico tra incertezza e scetticismo.

Tali dubbi –figli della delusione di chi, dopo lunga ricerca, ha gettato la spugna rinunciando a trovare la causa ultima delle cose- lo spingono a liquidare, in modo un po’ troppo frettoloso e capzioso, le idee di qualsiasi pensatore razionalista e sistematico. La sua avversione per i philosophes –e per i loro epigoni ottocenteschi: i positivisti- è proverbiale. La furia anti-razionalista degenera spesso in un nichilismo cupo in cui qualcuno ha voluto scorgere un debito nei confronti della filosofia reazionaria di Joseph de Maistre.

Il senso della storia. La conformazione dell’opera –che per l’appunto indaga la vita di individui della buona società russa in tempo di pace, e le scelte dolorose cui la guerra li costringe- giustifica la trovata di Tolstoj di scrivere non solo un epilogo, ma ben due: separati, è vero, ma per certi versi interconnessi.

Se nel primo, con tipico espediente ottocentesco, dà conto dello stato in cui versano i personaggi (Pierre, Natascia, Marie) sopravvissuti per un pelo all’aggressione napoleonica del 1812, nel secondo prende di petto la questione che più gli sta a cuore: il senso della storia.

Perché, si chiede, le cose sono andate in questo modo e non in un altro? Cosa ha spinto Napoleone a concepire la campagna di Russia, e com’è riuscito a farsi seguire da centinaia di migliaia di uomini? Quale perverso sentimento patriottico può aver indotto tanti moscoviti ad abbandonare le proprie case lasciando dietro di sé immani lingue di fuoco e macerie fumanti? Ma più in generale, cosa induce intere masse di giovani individui a uccidere, assediare, distruggere, stuprare in nome di un fine che, oltre a trascenderli, di fatto non li riguarda? Chi è il vero ispiratore degli eventi? Il condottiero? L’ideologo? La vanità? Il nazionalismo? La brama di saccheggio e di conquista? La cupidigia? La follia? Il caso?

Non c’è questione posta da Tolstoj che non si affacci all’orizzonte della nostra coscienza ogni volta che, sgomenti e increduli, veniamo travolti dalle immagini delle violenze commesse in questi giorni, perlopiù da individui non troppo diversi da noi. Del resto, quale persona pacifica e benintenzionata può resistere alla tentazione di domandarsi: cosa diavolo sta succedendo? Perché hanno cominciato questa cosa? Che gliene viene? Perché non la smettono? Cosa spinge un popolo ad attentare all’indipendenza di un altro? E come mai l’altro, invece di arrendersi, resiste?

Sarebbe fuorviante separare le annose questioni filosofiche che affollano la mente di questo dilettante di genio dalle sue istanze di romanziere impareggiabile. Come ha ben visto George Steiner, uno dei tratti più toccanti dell’umanismo tolstoiano è la cura meticolosa dedicata a ciascun personaggio, finanche il più trascurabile e antipatico. Dal vanitoso Anatole, passando per la sua bellissima frivola sorella Hélène, fino al di lei amante, il bieco Dolochov, non c’è eroe di “Guerra e pace” per cui Tolstoj non straveda. Non ce n’è uno che non meriti un itinerario morale allo stesso tempo coerente e contraddittorio. Ecco, su larga scala, sulla grande scena della storia, il suo approccio è altrettanto ecumenico e generoso. Si rifiuta di spiegare il cataclisma storico che all’inizio del diciannovesimo secolo ha cambiato il volto dell’Europa partendo dai suoi protagonisti più illustri: Napoleone, i suoi marescialli, lo zar Alessandro I o il buon vecchio Kutuzov. Gli preme di più indagare i moventi che hanno spinto tanti uomini a lasciarsi travolgere da una macchina bellica così gigantesca. Si pensi al giovane Nikolaj Rostov assetato di gloria o al goffo Pierre Bezuchov deciso ad attentare alla vita di Napoleone. Ecco, Tolstoj vuole sapere. Vuole capire. Vuole dare un senso a un caos incombente e incomprensibile.

Storici antichi e storici moderni. Per rispondere agli interrogativi che lo opprimono, parte da lontano. Analizza il contegno degli storici antichi, per certi versi parecchio distante da quello tenuto dagli storici moderni, per altri contiguo in modo imbarazzante. Come spesso gli capita, Tolstoj affronta gli argomenti a brutto muso, senza girarci intorno. “Oggetto della storia è la vita dei popoli e dell’umanità. Cogliere in modo immediato e abbracciare con la parola, cioè descrivere la vita non solo dell’umanità, ma anche di un solo popolo, appare impossibile”.

La ricetta degli antichi era semplice. Non c’era fatto storico che non potesse essere retrospettivamente attribuito a una volontà divina che si era incarnata in una manciata di uomini: re, eroi, condottieri. Il destino dell’intera umanità, quindi, era indirizzato da un disegno metafisico talmente preciso e in equivoco da ispirare gli atti di un’oligarchia di prescelti dotati di facoltà sovrumane: Alessandro Magno, Cesare, Augusto.

Gli storici moderni, nota Tolstoj, ce l’hanno messa tutta a emanciparsi da questa concezione pedestre, ma di fatto non sono riusciti a trovare un’alternativa adeguata. Ecco allora gli eroi dell’antichità sostituiti da personalità non meno straordinarie: monarchi illuminati, primi ministri, intellettuali, giornalisti. Questi nuovi semidei, finalmente liberi dal giogo di una divinità superiore, grazie a un innato carisma, hanno saputo imporre il proprio imperio ai popoli. Insomma, anche lo storico moderno, si chiami Gibbon o Buckle, non rinuncia all’opportunità di mettere il potere assoluto nelle mani di pochi uomini. E Tolstoj non ci sta: “La vita dei popoli non è riducibile alla vita di pochi uomini, perché il nesso tra questi pochi uomini e i popoli non è stato trovato. La teoria secondo la quale questo nesso si baserebbe sul trasferimento della somma della volontà delle masse ai personaggi storici è un’ipotesi non confermata dall’esperienza della storia”.

Tolstoj divide gli storici moderni in due categorie: gli specializzati e gli universali. Se i primi s’interrogano sulla natura del singolo statista che fa la storia, i secondi, almeno in questo solo in apparenza più cauti e lungimiranti, studiano l’intersezione tra forze contrarie. Ma sia gli uni che gli altri non riescono a liberarsi del sospetto che il pallino sia nelle mani di pochi, e che siano le loro intenzioni (il più delle volte vanitose e malvagie) a determinare le sorti di tutti gli altri.

Un metodo di indagine che Tolstoj giudica ingenuo e insoddisfacente, schiacciato com’è su moventi incapaci di andare al fondo delle cose, al nocciolo della questione. “La stranezza e la comicità di queste risposte –nota Tolstoj pieno di acrimonia- vengono dal fatto che la storia moderna è simile a un sordo che risponde a domande che nessuno gli fa”.

La vera domanda per Tolstoj è un’altra: “Quale forza muove i popoli?” Alcuni storici, spiega, si bevono la frottola secondo cui a costringere i popoli ad armarsi e a guerreggiare siano le suggestioni culturali derivate da alcuni profetici maitre à penser. Per questi studiosi non c’è modo migliore per comprendere i tumulti che condussero alla Rivoluzione francese che interrogare le opere di Rousseau e di Voltaire. Anche questa interpretazione appare a Tolstoj incompleta. Per quanto il cosiddetto Zeitgeist, lo spirito del tempo, possa offrire una prospettiva interessante per capire i sentimenti medi delle persone in una determinata epoca, resta comunque il fatto che un libro non può incidere sugli avvenimenti storici più di quanto possa fare un condottiero.

Tolstoj sembra avercela in particolar modo con gli storici di parte, quelli che noi oggi chiameremmo ideologizzati. Come ci si può fidare di chi sottomette il desiderio di capire alla smania di promuovere? A chi si lascia ispirare da una specie di settaria tendenziosità? Avere un’idea precostituita delle cose è un esercizio di supponenza che scredita anzitutto chi vi indulge.

Assai più lungimirante gli pare chi pone quesiti senza soluzione come, per esempio, il seguente: cos’è il potere?

E’ una domanda che nel mio piccolo mi sono fatto anch’io vedendo Putin ridurre al silenzio il capo dell’intelligence russa, Sergej Narjskin. Di fronte alle immagini sconvolgenti in cui Putin trattava un sottoposto con il piglio di un preside tirannico, mi sono colto a pensare: ecco cos’è il potere. Un micidiale mix di carisma e intimidazione, un sopruso che giustifica se stesso nella volontà del potente di non essere contraddetto. Ma basta questo, vien subito da chiedersi, a spiegare quel che sta succedendo? Ne dubito, così come ne avrebbe dubitato il saggio Tolstoj: “Se la fonte del potere non sta nelle qualità né fisiche né morali del soggetto che lo detiene, allora è evidente che deve trovarsi al di fuori di lui, e cioè nei suoi rapporti con le masse”. Tolstoj si domanda se la spinta ad agire nasca dalla capacità dell’autocrate di turno di condizionare la scelta delle masse, o non piuttosto dalla volontà delle masse di sottomettere l’autocrate di turno alle proprie smanie. A questo nessuno storico è ancora riuscito a dare una risposta definitiva.

Tolstoj intuisce che lì si gioca la partita, nell’alternanza viziosa e imperscrutabile, nella reciproca influenza tra particolare e universale: più oltre non si può andare. “Qual è la causa dei fatti storici? Il potere. Che cos’è il potere? E’ la somma delle volontà trasferite a una sola persona. A quali condizioni le volontà delle masse si trasferiscono a una sola persona? A condizione che la persona esprima la volontà di tutti. Cioè il potere è il potere. Cioè “potere” è una parola di cui non comprendiamo il significato”. Insomma, non se ne esce. Dire che Putin impone la sua volontà di violenza ai suoi sudditi (come altro definirli?) è altrettanto stolto che affermare che lui si limiti a interpretarla. E’ impossibile, per lo scrittore, desumere una legge storica da un semplice evento, per quanto gigantesco esso sia. La sola funzione dello storico consiste nel registrare ciò che è accaduto senza cedere alla tentazione di credere che se è accaduto in quella determinata circostanza possa ripetersi in presenza di circostanze analoghe. A dispetto di ciò che pensavano gli antichi, la storia non insegna niente. “Perché avviene una guerra o una rivoluzione? Non lo sappiamo, sappiamo soltanto che perché si compia una determinata azione gli uomini si uniscono in un certo raggruppamento e tutti vi partecipano; e diciamo che tale è la natura degli uomini, che si tratta di una legge”.

Un arcano potere. Insomma, qual è il senso della storia? Perché Napoleone, a dispetto delle premesse a lui favorevoli, ha finito con il perdere la guerra? E perché i suoi nemici, più deboli e disorganizzati, hanno avuto la meglio? Nessuno può avere la presunzione di spiegarlo con gli strumenti offerti dalla scienza. Nessuno ha il diritto di illudersi che a trionfare sia stata la giustizia in cui, di fatto, Tolstoj non crede. Almeno in questo, la sua posizione è più vicina al nichilismo di Stendhal e di Flaubert che al provvidenzialismo –vero o presunto che sia- di Hugo e Manzoni. Le cose capitano perché capitano. Come capiscono sulla loro pelle Fabrizio Del Dongo e Frédéric Moreau, non c’è modo di governare le masse, e neppure di capire cosa le muove. Allo storico non resta che arrendersi di fronte a questa verità demoralizzante.

Il solo modo di conferire un valore, sebbene per sua stessa natura ingannevole, agli eventi della storia è l’arte. E non perché essa si sforzi di illustrare ciò che non può essere capito ma perché, viceversa, essa dà tale fallimento intellettuale per assodato. Il territorio di indagine di un artista è allo stesso tempo più modesto e più profondo di quello concesso allo storico. La sua forza non si esprime nella capacità di fornire una visione universale delle cose, ma nell’umiltà con cui preferisce concentrarsi su episodi apparentemente trascurabili compiuti da individui marginali. Non esiste un modo più efficace di interrogarsi sul mistero della vita che valutarlo attraverso il diaframma dell’immaginazione. Come nota Berlin, sulla scorta di Sklovskij, una delle invenzioni più toccanti di “Guerra e pace” è la manipolazione operata su un personaggio storico come il generale Kutuzov: con un arbitrio degno del suo genio, Tolstoj trasforma “l’attempato epicureo, scaltro e flaccido, il cortigiano corrotto e non alieno dall’adulazione delineato nelle prime stesure del romanzo, che si basavano su fonti autentiche”, nell’uomo saggio e temperante che abbiamo imparato a conoscere nella versione definitiva.

E’ evidente che alla lunga la suggestione offerta dalla letteratura ha avuto la meglio sulla verità storica. Oramai per tutti noi Kutuzov è il prudente generale che con il suo stoicismo, buonsenso e modestia ha saputo incarnare lo spirito russo. Tale indebita trasfigurazione di un personaggio storico mostra come la ragione sociale dell’arte si esprima e si compia nella creazione di miti che, alterando la storia, finiscono per conferirle un senso.

Tolstoj sempre a un certo punto apre uno spiraglio verso l’immane mistero che ci avvolge. Di solito sono gli eroi più introspettivi e in crisi –Konstantìn Lèvin, Andrej Bolkonskij, Dmitrij Nechljudov- a essere travolti da un tumulto di sentimenti che li pone di fronte a qualcosa di talmente arcano da sovvertire l’ordine quotidiano delle cose. Ben attento a non cedere al misticismo, regala ai suoi eroi sconvolgenti esperienze paniche. Che si presentino su una steppa innevata o su un campo di battaglia, ciò che accomuna tali epifanie è la tensione verso l’assoluto. Che non sia questo il senso delle cose che l’artista intuisce e lo storico non può far altro che eludere? Forse solo un nuovo Tolstoj, un nuovo Picasso, un nuovo Bob Dylan, un nuovo Francis Ford Coppola potranno dirci un giorno, fuori tempo massimo, qual è il legame inestricabile che lega Putin al suo popolo, e perché a noi, da qui, ogni suo atto appaia così irragionevole e oscuro.

 

                                                        Alessandro Piperno

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 3 luglio 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 2-5.