Torneremo a misurare il mondo?
Dai confini della terra all’intelligenza artificiale l’uomo ha sempre sfidato i limiti. Perché solo così costruisce il futuro. Daniel Kehlmann, scrittore-filosofo tedesco, riflette sulla nostra corsa verso l’ignoto.
Nell’Espresso del 7 giugno 2020, alle pp. 68-72, è pubblicato un articolo-intervista che Wlodek Goldkorn ha con Daniel Kehlmann.
C’è un’immagine che secondo Daniel Kehlmann, scrittore tedesco di grande successo, rappresenta le contraddizioni della modernità, anzi è “l’emblema della dialettica dell’illuminismo”. “La dialettica dell’illuminismo” è un libro di Theodor Adorno e Max Horkheimer, del 1944, e che cambiò il nostro sguardo sull’epoca dei Lumi: non più una marcia trionfale della ragione e del progresso ma un fenomeno in cui persiste la presenza dei miti e dove spesso al posto della luce subentra l’oscurità. L’immagine che invoca invece Kehlmann è questa: una signora né giovane né anziana, né bella né brutta, vestita in tuta, una borghese qualunque, corre su una spiaggia deserta. La spiaggia è battuta dal gelido vento dell’Atlantico – siamo sulla punta nord di Long Island negli Usa – e ha la bocca e il naso coperti da una mascherina. “Ho pensato di avvicinarmi, per dirle: guardi, qui non ha bisogno di quel dispositivo di protezione. Il virus che lei teme non si propaga all’aperto con il vento. Poi ho riflettuto”, prosegue lo scrittore, “e sono arrivato alla conclusione che avrei sbagliato. Perché per quella signora la maschera era un talismano, un oggetto magico e che tuttavia dà la forza di affrontare la paura. E va bene così”.
Kehlmann ha 45 anni ed è l’autore, fra gli altri libri, di “La misura del mondo” e “Tyll. Il re, il cuoco e il buffone”, venduti in tutto il mondo in milioni di copie. Il prima narra di Alexander von Humboldt, esploratore, geografo e scienziato vissuto fra la metà del Settecento e metà dell’Ottocento, un uomo che incarnava nella sua opera gli ideali e le illusioni dell’età della Ragione. Il secondo affronta la guerra dei Trent’anni, nel Seicento, che devastò la Germania e dove agli albori della modernità si manifestò la forza distruttrice dell’animo umano per niente razionale: caccia alle streghe, fanatismo religioso, convinzione che il talismano appunto protegga i guerrieri dalla morte.
Con lui quindi, nato a Monaco di Baviera, figlio tardivo di un regista austriaco che fu prigioniero in un lager nazista e nipote di uno scrittore, riflettiamo non sul mondo dopo la pandemia (nessuno ha la sfera di cristallo) ma su cosa il coronavirus ci dice di noi e della nostra modernità. La pandemia lo ha trovato a New York, ma Kehlmann, assieme alla moglie e al figlio si è trasferito a Montauk, dove appunto ha visto la signora che correva, e ora sta per tornare a Berlino. E’ comunque dagli eremi che la vista del centro si fa più acuta, specie quando si ha lo sguardo di chi viene da tre generazioni di persone che di mestiere raccontano il mondo.
La conversazione comincia parlando del superamento dei limiti, una delle caratteristiche principali della modernità: da alcuni secoli in Occidente abbiamo pensato di poter esplorare l’intero globo terrestre, non lasciare niente di indefinito, e quando non ci bastò la Terra abbiamo tentato di esplorare il cosmo. Non paghi, abbiamo sviluppato l’intelligenza artificiale, perché non ci sembrava sufficiente la nostra intelligenza umana. Ma all’apice di questo processo, un virus, un’entità minuscola e per niente intelligente ci ha fatto capire che non siamo onnipotenti.
Kehlmann invoca Immanuel Kant. Dice: “La situazione che abbiamo vissuto in questi mesi ci porta alla riflessione dell’autore delle tre Critiche (della Ragion Pura, della Ragion Pratica e della Facoltà del Giudizio), là dove parla del rapporto fra la libertà e la natura. Il fatto che abbiamo accettato di restare chiusi nelle nostre case è stato un voto per la natura e contro la libertà. La limitazione delle nostre libertà significa però che ci percepiamo come parte della natura e non come i padroni dell’universo, in grado di metterla al nostro servizio”. Una cosa positiva, quindi? “Per niente”, è la risposta, “è umiliante”. Spiega: “Ci siamo ridotti da specie che forgia liberamente il proprio destino a portatori delle malattie, a esseri sputanti goccioline. E’ una prospettiva nuova per quanto riguarda l’immagine che abbiamo del nostro genere. E non ne sono contento. Vorrei vedere di nuovo gli umani come soggetti”.
Alla domanda se quindi tutto quello che pensavamo di sapere di noi grazie al pensiero illuminista sia perduto, la risposta è articolata. “Intanto, questa lezione di umiltà ci fa capire quanto non siamo altro che i nostri corpi. E da questo punto di vista si tratta di una correzione filosofica importante. Però, non è perduta l’idea di fondo che comunque il mondo vada esplorato non solo per curiosità, ma come mezzo per costruire il futuro”. Prosegue: “Gli uomini del ‘700 e dell’’800, e prima ancora quelli dell’età umanistica e rinascimentale, ci insegnano come convivere con le malattie e con le limitazioni della natura”. Sorride: “Hegel è morto di colera. Ma questo non rende meno importante la sua filosofia basata sulla razionalità della storia”. Cita di nuovo Kant: “Era una specie di precursore del distanziamento sociale. Era di salute cagionevole. E per questo organizzò la sua vita in una maniera così regolare e precisa, da suscitare l’ironia dei suoi contemporanei. Pianificava minuziosamente tutto quello che faceva in funzione del rapporto fra il suo stato di salute e il futuro, che per lui significava portare al compimento le opere intraprese”.
Si prosegue parlando di uno dei padri nobili del pensiero scientifico, Humboldt, l’uomo che, ovunque viaggiasse, misurava e classificava qualunque cosa: l’altezza delle montagne, l’identità delle piante, le distanze fra un posto e l’altro e che spiegava ai capitani delle navi su cui si imbarcava che il sapere scientifico era più importante della loro esperienza di navigatori. L’ipotesi sottoposta a Kehlmann è la seguente: forse misurare il mondo, più che a stabilire la verità, aiuta a superare la paura dell’ignoto? Lo scrittore risponde: “La misura ci dà una verità, non è quindi un’illusione o una consolazione, ma è una verità parziale. Parliamo di oggi. Pensiamo al tracciamento dei positivi al virus. Si tratterebbe, se fosse implementato davvero, di quello che il grande teorico del liberalismo Isaiah Berlin descriveva come il conflitto di valori riconducibili all’Illuminismo. Da un lato, la salute che è un valore di stampo progressista, dall’altro il controllo sulle nostre vite da parte delle autorità che non lo è”. Dice: “Il dilemma potrebbe essere risolto quando avremo il vaccino. Ma se non l’avremo?”. Torna così alla questione delle verità parziali e settoriali: “Se non lo avremo ci sarà anche un problema se, per esempio, dobbiamo rinunciare a stare insieme e a frequentare il teatro. Saremo disposti a farlo?”. Si dà una risposta da solo: “Il virologo mi direbbe: andare a teatro può fare male. Ma io non voglio rinunciare, amo troppo gli spettacoli dal vivo nelle sale affollate. Però confesso, se lei mi chiedesse se sia stato pronto, in piena pandemia, di andare al teatro, le risponderei, certo che non lo sono stato”. Morale? “Il conflitto fra le verità è dentro ognuno di noi. Chiamasi: condizione umana”.
Kehlmann ha una solida preparazione filosofica. Ma poi è uno scrittore, molto interessato alle mitologie. Ed è pure un uomo di sinistra. Quando sente formulata l’annotazione ride: “Uno dei pochissimi aspetti positivi della pandemia sarà la sconfitta di Trump alle elezioni”. Non basta, insistiamo. Una volta i partiti che si richiamavano all’esperienza di vita dei lavoratori avevano il mito di Prometeo, che porta agli umani il fuoco degli dei, dei comunardi di Parigi che volevano l’uguaglianza. Lo scrittore interrompe: “Intanto, parlo da autore di romanzi, non sono ottimista. Questa è la peggiore crisi che si potesse immaginare”. Tace per un minuto, sospira, volge lo sguardo altrove, poi guarda lo schermo (siamo su Skype) e dice: “Premetto che per fortuna questa non è stata una guerra. Siamo stati in casa, a guardare la tv e sui divani. Ecco, dal punto di vista di un narratore e costruttore di miti la guerra è più interessante. In quelle situazioni di distruzione delle città, sanguinarie, le persone stanno insieme, hanno una vita emotiva intensa, si innamorano, muoiono combattendo in gruppo. Qui invece siamo stati isolati. Penso che ne verranno fuori narrazioni noiose, diari non interessanti, ad eccezione di qualcuno che magari riuscirà a raccontare un’esperienza eccezionale. Ripeto: senza rapporti umani intensi, non ci sono storie. Né letterarie, né politiche”.
E allora, insistiamo sulla politica. La modernità ha portato non solo l’emancipazione (per quanto parziale) dalla schiavitù della natura intesa come malattie, morte dei bambini e via elencando, ma nel suo grembo c’era pure la catastrofe, il colonialismo, la tratta degli schiavi e fino alla Shoah. L’Humboldt di Kehlmann in America latina vede gli schiavi e non si scandalizza. “Pensi all’11 settembre 2001”, è la risposta. “Pensi a Guantanamo. Avevano detto che la sospensione delle libertà fosse solo pro tempore. Ma il campo di prigionia è sempre lì. Neanche Obama lo ha chiuso. Oggi temo che il modello cinese del capitalismo senza democrazia sia un pericolo anche per l’Occidente. Ho visto giornalisti liberal, qui in America, lodare Pechino per come le autorità hanno usato mezzi di coercizione”. Allarga il discorso. “E allora come definiamo la parola progresso? Io e lei come più libertà e diritto di voto e partecipazione. Ma la storia del progresso può essere riscritta come la corsa a più efficienza, a un migliore smartphone, migliore tecnologia. E il diritto di voto non sarà importante, in quella narrazione”.
Il colloquio si conclude con una constatazione e una domanda. Siamo vivi finché siamo in grado di narrare storie. Prima di abbracciarci o fare sesso dobbiamo raccontarci qualcosa. Siamo tutti Sherazade. E allora, come racconteremo questa catastrofe? La risposta: “Con due storie opposte. La prima: eravamo tutti solidali. Tutti rimasero a casa per proteggere i più deboli. Il mondo subì difficoltà economiche ma mai prima ci fu tanta solidarietà e disponibilità ai sacrifici per evitare che la gente morisse. E’ una storia bellissima. L’altra narrazione è invece questa: abbiamo vissuto una storia distopica. La vita pubblica cessò e si trasferì sui computer e così le macchine hanno prevalso, e tutto ciò che abbiamo amato è sparito. E’ stata la prova generale delle dittature future. Ambedue le storie sono vere. Non so quale delle due prevarrà”.
Wlodek Goldkorn Daniel Kehlmann