Trent’anni fa cominciava il crollo della Prima Repubblica
Un saggio analizza cause e conseguenze di quella frattura
Un articolo di Goffredo Buccini, pubblicato nel Corriere della Sera del 23 gennaio 2022, a pag. 34, commenta il saggio di Simona Colarizi, ritratto spietato di una transizione inconclusa.
Al cinema sarebbe un prequel di successo, imposto dalla popolarità della serie. Come il passato di Dart Fener o la giovinezza di Albus Silente. Invece, nella dimensione della grande storia sempre inconclusa (il povero Fukuyama, ahinoi, aveva preso una… storica cantonata), si dipana come una lunga catena di perché e di concause. Perché cadde la Prima Repubblica? Perché l’Italia fu l’unico Paese occidentale schiantato sotto le macerie del Muro di Berlino? Perché bastarono appena due anni a dissolvere la classe politica che l’aveva governata dal 1945? Perché si generò allora l’onda populista che ancora oggi ne stravolge la convivenza civile? E, soprattutto, perché nacque Mani Pulite? Quali furono le premesse e le ragioni profonde dell’inchiesta più famosa e devastante della nostra vicenda repubblicana?
“Passatopresente”, il libro di Simona Colarizi, uscito in questi giorni da Laterza, mostra già nel titolo il filo agostiniano con il quale cucire gli eventi di ieri sino al “presente del presente” (alle origini dell’oggi, 1989-1994): sarà un testo scomodo per parte dell’opinione pubblica corrente, ma la sua lettura ne rivela grandi qualità, come storica scomoda e dalle grandi qualità è la sua autrice, Simona Colarizi, docente emerita alla Sapienza di Roma e autorevole studiosa dei partiti e dei movimenti politici e sindacali.
La cifra originale del libro consiste nel ricondurre l’inchiesta di Milano al suo alveo e in tal modo diminuirla della sua aura, smontandone l’unicità: non più meteora solitaria che s’abbatte sui dinosauri della partitocrazia, non più misteriosa epifania giudiziaria ma causa tra le cause (e, dunque, né congiura né golpe…); spiegabile in un contesto di fattori politici ed economici, sociali ed internazionali che hanno generato un evento senza precedenti nelle democrazie sorte dalla Seconda Guerra mondiale: l’estinzione di massa di partiti e gruppi dirigenti a lungo egemoni.
Alcune di questa cause ancora oggi incombono nel presente del presente, minacciose per la stabilità di un sistema solo apparentemente nuovo (e in realtà in forte continuità col precedente): debito pubblico, crisi della rappresentanza, incapacità di fare riforme, moltiplicazione dei demagoghi. Altre cause vanno inscritte nello specifico di un tempo scandito da enormi trasformazioni, gli anni Ottanta cui solo in parte l’autrice attribuisce connotazioni negative per molti scontate.
Furono anche anni di aspirazione alla modernità e di benessere più diffuso, certo: con un Pil al 4% nel 1988 e la Gran Bretagna sorpassata tra le potenze economiche, ci ricorda Colarizi, confutando con qualche generosità lo stigma dello yuppismo e della Milano da bere, magari un po’ macchiettistico ma pur sempre icona di una politica che comprava consenso assecondando la corruzione del tessuto sociale. In quegli anni Ottanta, segnati dal craxismo e poi dallo sciagurato connubio del Caf, e negli anni Settanta che ne gettarono il seme in termini di assistenzialismo, irresponsabilità di massa e clientelismo diffuso, primi scandali pubblici e rottura sentimentale con gli italiani, sentiamo il vociare convulso del partito trasversale della spesa, degli assalti alla Finanziaria e delle risse tra alleati di quadripartito e pentapartito fino alla paralisi (non vi ricorda qualcosa di terribilmente attuale?). Troviamo la fine dell’illusione keynesiana e il tramonto dello Stato imprenditore, l’addio al parastato e l’alba di privatizzazioni che significano rimescolamento di redditi e ruoli, di idee e prospettive cui la sinistra storica non riesce a dare risposte e che al fondo risucchiano l’opposizione comunista in uno schema pienamente consociativo. Troviamo la corsa a Maastricht, con un’asticella assai alta per la nostra economia, e con aspettative non più negoziabili nel milieu della grande impresa, infine decisa a forzare la nostra strutturale fragilità, che più fragili ci rende in un’Unione europea che si va costruendo.
Da tutto questo e da molto altro, come ad esempio uno statalismo burocratico così prossimo agli apparatchik e un allargamento dell’economia pubblica così peculiare da farci risentire come nessuno in Europa del crollo sovietico del 1989, si genera un caleidoscopio al cui fondo iniziamo a intravedere il profilo del palazzo di giustizia di Milano, le lunghe ombre dei magistrati del pool. Ombre appena tratteggiate dall’autrice, che tuttavia non riesce a dissimulare per loro un’avversione forse non solo storica, sino ad ipotizzarne una sorta di ricatto sul partito che con forte miopia ne accompagnò l’ascesa, il Pci-Pds, illuso di trarre beneficio da ciò che sarebbe diventata una catastrofe sistemica di sommersi senza salvezza.
Sono pagine che potranno generare controversie, magari dettate anche da una distanza troppo breve rispetto a eventi che hanno segnato destini, scavato nelle vite. E, tuttavia, proprio seguendone il dipanarsi, incontriamo il nucleo più forte e coinvolgente del testo: la critica al mito fasullo e qualunquista del popolo virtuoso, totem decisivo per l’abbattimento della Prima Repubblica; quella società civile santificata in tanti talk show di allora (e di adesso), contrapposta nella sua virtù a una casta politica di profittatori la cui sola rimozione, consensuale o forzosa, sarebbe stata sufficiente alla palingenesi. “Un mito assolutorio, perpetuato anche negli anni a venire”, scrive Colarizi, proiettando lo sguardo: “Che aveva impresso nell’immaginario di tanti la falsa e rassicurante immagine di un popolo incorrotto contro l’evidenza, invece, di una cittadinanza afflitta dagli stessi mali dei suoi governanti, con i quali per mezzo secolo aveva stretto patti taciti che ai cittadini garantivano una sorta di diritto all’evasione fiscale, ma anche assunzioni e promozioni nel pubblico impiego svincolate da meriti ed esigenze di servizio, nonché il posto a vita, l’assenteismo, l’inefficienza, il passaggio ereditario del ruolo tra i membri delle famiglie, clientele fedeli dei politici al governo”.
E’ un ritratto spietato e purtroppo attualissimo, dentro la nostra transizione trentennale e non conclusa, alla luce delle nuove crisi di sistema, delle cicliche ondate di giustizialismo e xenofobia, fino alla mistica dell’uno vale uno che nega competenze, educazione, perfino fede nei valori della vita civile. E tuttavia autorizza una questione ulteriore (e irrisolta): accettando in premessa che chi governa non sia peggiore di chi è governato, bisogna anche rassegnarsi all’idea che non ne sia migliore? La politica, inetta e inane, che sortisce da questo racconto, appare per paradosso deresponsabilizzata. Se non può altro che vellicare vizi e deprimere virtù, a cosa serve? E’ il cortocircuito che ancora, qui e adesso, ci lascia al buio.
Goffredo Buccini