“Tutta la mia fiorita e verde etade / passava” di F. Petrarca. Ipotesi di lettura

Tutta la mia fiorita e verde etade” di F. Petrarca. Ipotesi di lettura.

 

Tutta la mia fiorita e verde etade

passava, e ‘ntepidir sentia già ‘l foco

ch’arse il mio core, ed era giunto al loco

ove scende la vita ch’al fin cade.

Già incominciava a prender securtade

la mia cara nemica a poco a poco

de’ suoi sospetti, e rivolgeva in gioco

mie pene acerbe sua dolce onestade.

Presso era ‘l tempo dove Amor si scontra

con Castitate, ed agli amanti è dato

sedersi insieme, e dir che lor incontra.

Morte ebbe invidia al mio felice stato,

anzi a la speme; e feglisi a l’incontra

a mezza via come nemico armato.

                                                                       (“Canzoniere”, CCCXV)

 

Era ormai trascorsa tutta la mia giovinezza, età verde e fiorita, e già sentivo attenuarsi il fuoco della passione che un tempo aveva arso il mio cuore; capivo di essere giunto a quel punto dal quale comincia il lento declino della vita, che precipita nella morte. Già Laura, cara nemica (a me teneramente legata ma refrattaria all’amore), cominciava poco per volta a rassicurarsi dai suoi timori, e la dolce onestà dei suoi atteggiamenti trasformava ora in gioia per me le aspre pene tollerate un tempo, non soffrivo più per le sue ripulse. Era ormai vicino il tempo in cui Amore può sposarsi con Castità, quando agli amanti è dato di sedere accanto e di parlare di quello che accade loro con affettuosa confidenza e teneri ricordi. La morte non ebbe invidia di questo stato felice ed atteso, che ancora non esisteva; non invidiò quella felicità ma la sua tenue speranza e le si fece incontro come un nemico pronto all’offesa.

Il poeta vagheggia il tempo nel quale, avvicinandosi la vecchiaia, il fuoco della passione per Laura si sarebbe placato e si sarebbe tramutato in un legame di amicizia casta, di confidenza affettuosa, piena di ricordi e di un tranquillo chiacchierare; scrive il Croce: “la vita tramonta ma anche il tramonto ha il suo bello; anch’esso apporta qualcosa che la gioventù non possiede. Se l’ardore si placa, il tepore ne è ancora diffuso nell’anima”. Non c’è perciò il vagheggiamento della giovinezza perduta, come leggiamo in tante opere poetiche, ma il rimpianto triste e accorato di un’età suprema, di una pace che il poeta avrebbe un giorno raggiunta con lo spegnersi delle passioni: l’aspirazione ad uno stato ideale nel quale Laura sarebbe stata ugualmente amata ma senza l’inquieta coscienza del peccato, con la vecchiaia che non appare più come il segno del disfacimento ma come una sosta, una speranza di un tempo più tranquillo. Nella seconda terzina c’è la svolta drammatica: arriva la morte a prendersi Laura e a spegnere brutalmente la speranza.

Già molti anni prima, al principio del suo amore per Laura, Petrarca aveva immaginato che nell’età matura la sua donna gli sarebbe stata più tenera, cedendo ormai la passione il posto a un affetto calmo e casto (si legga il sonetto “Se la mia vita da l’aspro tormento” (XII). Aveva scritto: “donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento, / e i cape’ d’oro fin farsi d’argento”; e ancora : “ch’i’ vi discovrirò de’ miei martìri / qua’ sono stati gli anni e i giorni e l’ore”.  

Prima quartina. Il sonetto si apre con una bella immagine di primavera, metafora di giovinezza, di paesaggio colorato e idillico, anche se subito immalinconito dal passare inesorabile del tempo che precipita verso la fine. Il poeta ricorda la propria vita, vita accoppiata metaforicamente a una primavera colorata e profumata, che è trascorsa (bello e intenso l’enjambement con “etade-passava”, accentuato da quello splendido e pregnante inizio: “Tutta la mia etade”). E’ una sensazione bellissima di un tempo lucente e vivace, contrastata subito dalla consapevolezza che tutto ciò diventerà cupo, buio, polveroso. Il “passava” racchiude in sé non un episodio, una parte della vita, bensì tutta la sua esistenza, ogni giorno, ogni momento, ogni sentimento: una totalità bella e luminosa che però trascorre e si allontana, giunge al punto in cui la vita comincia a declinare, a perdere stimoli e interessi, fino a cadere nel precipizio della morte. E’ un lento inesorabile climax discendente. Questo passaggio, questo lento cammino è sottolineato anche da vari artifici letterari: da notare le rime ed assonanze che legano “etade, arse, cade”, “verde, scende”, e il persistente polisindeto dei primi tre versi. Quanto ai tempi verbali domina l’imperfetto (“passava, sentia”), il tempo della durata nel passato, che dà l’idea di un processo lento, di una serie di fatti che sfumano nell’indefinito. L’imperfetto di “passava” sembra voler esprimere un movimento (che deve ancora cessare) che si sposa ad “’ntepidir”: nonostante quest’ultimo verbo sia all’infinito, il suo significato (l’attenuarsi delle passioni e dei desideri) è qualcosa che implica anch’esso del movimento, o meglio, del prolungarsi del tempo. La giovinezza è trascorsa inesorabilmente e il fuoco che le apparteneva si è raffreddato a poco a poco, tutto diminuisce d’intensità e precipita (“scende e cade”) nella morte irrimediabile. La stessa scelta dei verbi indica un moto continuo, un’azione che perdura: “passare, intiepidir, ardere, scendere, cadere”. Interessante mi sembra, infine, la notazione di un intreccio di sinestesie: la preminenza del gioco visivo nel primo verso, la sensazione tattile del fuoco tiepido nel secondo verso. Il poeta usa rinforzare con l’aggettivo possessivo “mio” le cose a lui più care e che non ha più: “mia etade”, che era bella nel tempo della giovinezza; “mio core”, che è ormai, anche se solo in senso figurato, arso. Le parole della quartina sono quasi tutte piane e bisillabe e danno alla rievocazione un ritmo tranquillo, calmo, che non sembra annunciare brusche sorprese, novità che avremo invece nell’ultima terzina.

Seconda quartina. La strofa è costruita su una totale ellissi: Petrarca ci parla di Laura senza mai nominarla. Ora è lei il soggetto principale, lei che subentra al poeta, assoluto protagonista della prima strofa. La donna ha preso consapevolezza molto, troppo lentamente (“incominciava, a poco a poco”) dei veri sentimenti del poeta, ha impiegato una vita per capire: di qui, credo, il rammarico del poeta sbottato nell’ossimoro della “cara nemica”, che lo ha completamente in suo potere. Ora Laura non avrebbe più temuto di lui, avrebbe accolto la sua compagnia, consolati gli ultimi anni.

Anche in questa strofa è insistito l’uso dell’aggettivo possessivo “mio” nel secondo e quarto verso, “mia cara nemica, mie pene acerbe”, in simmetria col primo e terzo verso della quartina precedente, a rimarcare il concetto dell’unione assoluta e insieme contraddittoria tra la vita e l’amore dei due protagonisti. Interessantissimo è, nell’ottavo verso, il chiasmo: “mie pene acerbe / sua dolce onestade”, che preannuncia il momento nel quale Amore e Castità si uniranno (bello e forte il contrasto tra il mio dell’inizio e il suo di metà verso, e intensa anche l’assonanza delle pene acerbe). Anche in questa quartina è riproposto il medesimo gioco d’accenti, in prevalenza parole piane che conferiscono scioltezza linguistica alla narrazione della storia.

Prima terzina. Le due terzine sono in evidente e nettissimo contrasto. In questa il campo semantico è tutto innervato sulla gioia: “amor, castitate, amanti, sedersi insieme”. Senza equivoci il soggetto è l’amore, gli amanti; ma la rima “scontra – incontra” introduce un più sottile gioco interpretativo. Laura si è adoperata con tenacia per restar fedele alla castità mentre il poeta vuole ribadire la sua convinzione della necessità della passione, dell’eros nell’amore, e quindi vuole trasmetterci la sensazione dolorosa di una vita passata senza il corpo della sua cara nemica. Era cominciato comunque un periodo incantato nel quale Laura non aveva praticamente più sospetti: l’assonanza del “presso era il tempo” rafforza l’indizio temporale del trascorrere inesorabile dei giorni e degli anni, dell’avvicinarsi della castità che lenta e silenziosa smorza le passioni, ma che contemporaneamente apre la stagione pacata di confidenze tranquille, di un racconto che potrebbe durare all’infinito. “Sedersi insieme”: le parole non rivelano solo un gesto esteriore ma la possibilità di una sosta, di una quiete che non è stata mai concessa al nostro poeta. In questa poesia si fondono insieme il ricordo dell’amore e il desiderio di un affetto che sta oltre ogni sensualità. Sembra quasi che si possa invecchiare con una luce di giovinezza negli occhi e nel cuore, che la passione possa perdurare nonostante il tempo e gli accadimenti. L’amore sopporta la trasformazione fisica, vale la bellezza dell’inizio.

Seconda terzina. E’ la strofa che chiude il sonetto, in modo drammatico: un lamento disperato si sostituisce alla pacata tristezza dei primi undici versi. La Morte è presentata subito all’inizio del verso ed è personalizzata, improvvisa e prepotente, un ostacolo invincibile insormontabile, “nemico armato”: un richiamo alla tradizione cavalleresca del medioevo ormai quasi definitivamente passato. Il campo semantico è di afflizione e di infelicità: “morte, invidia, feglisi a l’incontra, nemico armato”, e si caratterizza anche per un’allitterazione insistita sulle lettere “r e t”, con suoni stridenti e fastidiosi. Infine, la nota, “a mezza via”, non si traduce solo (“prima che la vera felicità fosse giunta”) ma insinua anche il sospetto doloroso dell’agguato improvviso (l’ispirazione è in un passaggio dei “Proverbi”, XXIV, 34: “et veniet tibi…mendicitas quasi vir armatus”).

Ho già sottolineato l’antitesi fortissima tra il primo e l’ultimo verso del sonetto: “Tutta la mia fiorita e verde etade / a mezza via, come nemico armato” (il contrasto tra la vita e la morte) ma c’è un altro elemento che li unisce: in entrambi il poeta non ha usato verbi, ha quasi immobilizzato l’azione, tutto è compiuto. Prendiamo anche in esame le prime parole delle quattro strofe, “Tutta, Già, Presso, Morte”: “Tutta” ci dà un’idea di pienezza, di durata; “Già” sottolinea qualcosa che avviene poco per volta, illumina sensazioni che lentamente si aggregano e diventano coscienza; “Presso” ci avverte di un evento prossimo, vicino, umanamente ineluttabile; “Morte” segna la rottura, un limite che però riconduce all’illimitato: dalla durata effimera del tempo degli uomini all’eternità divina.

Conclusione. Quando ero giovane e leggevo questo sonetto del Petrarca non riuscivo ad immaginarmi un tempo nel quale la tempesta delle passioni si sarebbe tramutata in uno scambiarsi dolce di confidenze e di riflessioni, nell’epoca in cui i corpi sembrano avviarsi verso l’autunno ma lui e lei sanno ancora stringersi la mano con tenerezza, quando scoprono che sono fatti di ossa e di rughe, di speranze e di declino e diventano sempre più consapevoli che il paradosso della vita è l’essere nati per morire, magari confidandosi “ascolta come mi batte forte il tuo cuore” (M. Szymborska). Insegnavo allora ed ero convinto di dover acuire i sensi dei miei studenti-lettori, di doverli abbagliare perfino e lasciarli poi errare un po’ smarriti dentro il testo: così pensavo di svolgere il mio compito, costruendo anche un paziente, e speravo anche intelligente, reticolo di riferimenti storico-linguistici. Stava poi ai lettori la facoltà di accrescere il senso del testo con le proprie reazioni. Del resto un testo, lo ricorda Gianfranco Ravasi, è -nella sua genesi latina- un textus, cioè un tessuto: dalla trama di quelle parole e di quelle frasi noi ricaviamo di volta in volta un filo, dei vocaboli significativi che spieghino il brano.

Ora che sono passati tanti anni, ritaglio per me il ruolo di  un coltivatore di memoria con uno strumento nuovo nell’epoca della riproducibilità tecnica infinita, chissà un tramite tra passato e futuro, un testimone di un’epoca che non c’è più. Non sono in sintonia con questi tempi, ci vivo ma da estraneo, non ne condivido i gusti e le pratiche. Sento sempre più miei i versi del poeta russo Osip Mandelshtam: “Noi viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese. I nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza. Tempo, timida crisalide, farfalla cosparsa di farina, giovane ebrea incollata alla vetrina di un orologiaio, per te sarebbe meglio non guardare” (maggio 1934). Il poeta morirà in un gulag staliniano in Siberia il 27 dicembre 1938.

15 luglio 2010 

                                               Gennaro  Cucciniello