“Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo, versi 1-22. Un’interpretazione.
Questo è un lavoro scritto nel maggio del 1992 da una mia studentessa del quarto anno del Liceo Linguistico Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, appunti da utilizzare in una lezione da lei tenuta alla classe. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciassette-diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur intelligenti e vagliate, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sul Carme, inevitabilmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche riportate con diligenza in bibliografia. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, stratificata con attenzione, germoglio di future buone letture. “Un classico”, scriveva Italo Calvino, “è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé: Ma continuamente se li scrolla di dosso”. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico diventi molto interessante quando l’interprete riesce a farci capire cosa si nasconde dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla.
Non voglio perciò che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.
prof. Gennaro Cucciniello
Deorum Manium iura sancta sunto. XII Tab.
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Schema metrico: endecasillabi sciolti.
“Siano santi tutti i diritti dei Mani”, ossia delle anime divinizzate di chi moriva serenamente. La citazione, in epigrafe, di un antico precetto (che non appartiene, come afferma Foscolo, alle Dodici Tavole ma si trova in Cicerone, De Legibus, II, 9) assume significato polemico e vuole contrapporre all’editto napoleonico di Saint-Cloud il religioso rispetto per i morti. Agli spiriti dei trapassati i Romani rendevano un pubblico culto nel mese di febbraio
“I riti funebri e il pietoso affetto dei viventi non possono modificare la condizione dei morti, perché la morte è un totale annullamento: quando si è privati del godimento della bellezza della natura, delle speranze nel futuro e della fruizione degli affetti, l’esistenza o meno del sepolcro non modifica la condizione del morto. Anche la speranza, che sempre ci è compagna nella vita, si allontana dalle tombe”. Il poeta ribadisce con assolutezza le sue convinzioni filosofiche: egli nega ogni trascendenza e riafferma il proprio materialismo meccanicistico. La materia ritorna alla materia, il tempo cancella tutto; l’uomo, dopo la morte, si ricongiunge alla materia universale, per riprendere l’eterno processo di distruzione e di creazione. Immagini e concetti che ricorreranno poi di continuo in tutta la composizione. Non c’è più lo slancio fiducioso e polemico che aveva sostenuto il pensiero materialistico settecentesco ma l’atteggiamento disilluso di chi si rassegna davanti a una verità ineluttabile e amara. L’opinione di alcuni critici è che il Foscolo nel carme non superi “il materialismo del ‘700 sul piano teoretico con la proposizione di nuovi principi filosofici ma, sul piano pratico, con le illusioni. La sopravvivenza dopo la morte, indispensabile come stimolo alla partecipazione attiva ed energica alla storia, se è impossibile secondo la ragione, diviene possibile grazie all’illusione. Questa affermazione dell’illusione contro i risultati della filosofia settecentesca segna una svolta culturale di grande importanza e apre la strada alla visione del mondo del Romanticismo”.
Analisi del testo.
vv. 1-3 “All’ombra…men duro?”: è la prima delle due interrogative retoriche che presuppongono una risposta negativa, attraverso le quali Foscolo espone le ragioni del pensiero materialistico. A nulla giova il sepolcro per chi, morendo, ha perduto per sempre i doni della vita: la materia torna alla materia, travolta nel gorgo di incessanti trasformazioni, mentre la forza rapinosa del tempo avvolge tutto nell’oblio. La morte (vista come inattività: il sonno) è meno dura, dolorosa, terribile, pesante, quando si riposi all’ombra dei cipressi che circondano e adornano i cimiteri e dentro un’urna (le urne in cui gli antichi deponevano le ceneri del defunto: qui, per estensione, indicano la tomba) vanamente consolata dalle lacrime dei vivi, dal conforto della loro compassione? La domanda contiene già, nel modo in cui è formulata, le immagini e i concetti che ricorreranno continuamente nel testo: la natura che distrugge e crea (il cipresso che cresce vicino ai sepolcri), la società che cerca di perpetuare l’esistenza dei defunti (urne, pianto), l’assolutezza della morte (il sonno duro). Il “forse” che si accompagna all’interrogazione, l’attenuazione gentile della morte in un’immagine di sonno, la nota malinconica del pianto sottolineano la compassione fraterna con cui il poeta guarda al dissolversi dell’uomo e la pietà che prova mentre distrugge un’illusione. Spesso gli aggettivi hanno nel Foscolo significati complessi. Qui “men duro” vuol dire: meno profondo, meno insensibile ad ogni richiamo, ma anche meno doloroso, meno pesante: la durezza di quel sonno richiama la stessa durezza della pietra sotto la quale giace il corpo del defunto. Si può osservare che il ritmo grave della poesia si giova di una certa asperità di sillabe e di consonanti: in questi primi versi la frequenza delle erre spinge ad una lettura grave e sorda. Per ultimo, una nota sull’enjambement dei primi due versi (sostantivo + aggettivo, urne confortate; sostantivo + complemento di specificazione, il sonno della morte) che, allungando l’endecasillabo, raggiunge mobilità di ritmo ed evidenzia bene la parola che si vuole privilegiare.
In questo inizio colloquiale del carme le parole e le immagini sembrano emergere dal mondo classico: l’ombra dei cipressi (sacri agli inferi e simbolo del ricordo dei vivi) è un’immagine che risale ad Omero; le urne richiamano l’antico culto dei morti; “confortate di pianto” è costruzione latineggiante; “il sonno men duro” rimanda al virgiliano “dura quies urget et ferreus somnus”(Eneide, X, 745). Da non trascurare, infine, il verificarsi di una coincidenza –fin dai primi versi- tra il senso di alcuni vocaboli ricorrenti (campo semantico funerario) e la loro collocazione o all’inizio o alla fine del verso: ombra / urne, sonno / morte.
vv. 3-15, “Ove…Morte?”. “Quando non sarò più vivo, quando non potrò più vedere il sole creare sulla terra con il suo calore tanta bellezza (il sole inteso come forza produttrice e vitale della natura) di esseri vegetali e animali, quale giovamento potrà recarmi una pietra sepolcrale?” La meditazione e il giudizio impliciti nei versi precedenti si rinnovano e si declinano in una espressione più intima e personale. Il lungo periodo è costruito secondo una tecnica che Foscolo desumeva coscientemente dai Greci, con una serie di immagini che mettono in rilievo con un ritmo incalzante (e…né, e…né, e…e, ecc.) la struggente bellezza della vita che la morte vanifica. Il ritmo inesorabile sottolinea l’urgenza di verità alla quale sembra che il poeta non possa sfuggire.
vv. 3-5 “Ove…animali”. “Quando (ove è come l’ubi temporale latino) ai miei occhi (per me, ormai morto) il sole avrà cessato di splendere e fecondare sulla terra il mondo animale e vegetale”. E’ significativa questa animazione: tutto l’inanimato, la natura sia minerale che vegetale, viene elevato al rango dell’animato. Nello “Jacopo Ortis”, lettera del 20 novembre, aveva scritto: “Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe, che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina”. L’immagine, che sottolinea il tono colloquiale di questo esordio del carme, rimanda anche a Petrarca (“Zefiro torna, e ‘l bel tempo rimena, / e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia”, CCCX, 1-2). La seconda domanda fa emergere la massima intensità dell’esperienza della vita (nonostante le negazioni: “non fecondi, non danzeran”) e introduce la persona del poeta (“per me”), presenza dell’autore che proseguirà col “a me” del verso 7, col “mi” del verso 10, “mia” del verso 12, “mie” del verso 14, sia nella versione dell’aggettivo che del pronome possessivo, intrecciata in maniera significativa con l’incalzare delle negazioni: “non” dei vv. 4 e 7, “né” del v. 8, “né più” del v. 10.
vv. 6-7 “E quando…future”. “E quando il futuro non mi sedurrà più con le sue speranze allettatrici anche se illusorie (vaghe lusinghe)”. Il pensiero si è tradotto in un’immagine: le Ore future danzano, giovinette seducenti, dinanzi al poeta, e lo attirano lungo la vita col fascino delle loro illusorie promesse di un avvenire felice (per la personificazione delle Ore, cfr. l’Ode “All’amica risanata”, vv. 49-51). Nella mitologia le Ore sono le divinità femminili che danzano intorno al carro del Sole e personificano il succedersi del tempo. La definizione è suggerita dallo stesso Foscolo, ma in tono più pessimistico, in una Lettera a Cornelia Martinetti del 14 settembre 1812: “Ecco ormai un altro mese di vita fuggito lentissimamente fra i sospiri del passato, le noie del presente e le speranze ingannevoli dell’avvenire”.
vv. 8-9 “né da te…governa”. “E quando non potrò più sentire i tuoi versi dall’armonia malinconica”. Il dolce amico è Ippolito Pindemonte, del quale Foscolo definisce felicemente l’ispirazione poetica (cfr “Alla Melanconia”). Tra il marzo e il maggio 1806, tornando dalla Francia in Italia, Foscolo s’incontrò a Venezia con la contessa Isabella Teotochi Albrizzi e col Pindemonte. I due poeti avevano affrontato il problema delle nuove leggi funerarie francesi (“I Sepolcri” furono composti sotto la suggestione del decreto napoleonico di Saint-Cloud, 1804, col quale s’imponeva la sepoltura dei morti fuori dalle città e –per ragioni democratiche- si stabiliva che le lapidi fossero tutte di uguale grandezza e si regolamentava l’uso delle epigrafi) e della progettata estensione del decreto anche al regno Italico (di fatto avvenne il 5 settembre 1806). Si noti come nel Carme siano assenti gli affetti domestici veri e propri e prevalgano invece gli affetti dell’amicizia e dell’amore. Già Alfieri sosteneva che nei periodi delle tirannidi solo la comunità aristocratica di pochi spiriti affini ed eletti può riscattarci dalla comune servitù.
vv. 10-12 “né più…raminga”. “E quando non parleranno più al mio cuore né l’ispirazione poetica né la passione amorosa, elementi di unico conforto per la mia vita di esule (le Muse sono le divinità protettrici delle arti; la poesia è detta vergine, cioè pura, in quanto non deve essere asservita a interessi pratici, a mediocri e utilitari interessi)”. Nell’Ortis, nella Lettera del 15 maggio, Foscolo aveva scritto: ”O Amore, le arti belle sono le tue figlie; tu primo hai guidato sulla terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrani”.
vv. 13-15 “qual fia…morte?”. Alla luce di tutte le condizioni negative elencate nei vv. 3-12, ecco la conclusione, presentata sotto forma di domanda retorica: “quale compenso, quale risarcimento potrà rappresentare, per me che ho perduto la vita (a dì perduti), l’avere una tomba (sasso esprime un senso di squallore) che serva a distinguere le mie ossa dalle infinite che la morte dissemina nella terra e nel mare?” Ogni parola, la loro stessa collocazione e il ritmo del verso sono pieni di significato. Con la tecnica dell’inversione la parola morte, messa alla fine, viola l’ordine logico del discorso e ottiene il massimo dell’espressività. Osservate il rilievo che la giacitura e le pause danno a “dì perduti”, in cui viene espressa la pena per la privazione di tale e tanta bellezza. E il contrasto immediato con “un sasso”, parola in cui risuona una svalutazione e il sentimento di una fredda inutilità (e il quasi anagramma tra sasso e ossa). E l’ampio cimitero desolato e sterminato che diviene il mondo nell’espressione “dalle infinite ossa”, così prolungata dall’enjambement. E infine il senso di una vita che nascerà dalla morte e che è già evidente nel verbo “semina”, in cui non c’è solo l’idea di “spargere” ma anche quella che dalla morte prendono l’avvio altre e nuove forme di vita. E non voglio trascurare, per ultimo, l’interessante contrapposizione tra luce e ombra: quando c’è la parola sole le note sono tutte riferite ad un senso di positività, anche se introdotte da negazione. Il sole è vita, l’ombra è morte. Tutta la poesia è ombrosa, solo la comparsa per un istante del sole poteva essere segno di speranza, la desolazione mescolata alla luce, ma anche la speranza fugge.
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
vv. 16-17 “Vero è ben”. “E’ purtroppo vero, Pindemonte, anche la Speranza, l’ultima dea che, secondo gli antichi, abbandoni gli uomini imbarbariti e che rappresenta l’ultima risorsa dell’uomo, abbandona i sepolcri”. Questo è un tipico esempio di transizione, cioè di quelle formule rapide di passaggio attraverso le quali il poeta sviluppa altre considerazioni, trascurando mediazioni e risposte ovvie. Per il concetto di Speme cfr. il commento foscoliano alla “Chioma di Berenice”: “Tutti i Numi salendo all’Olimpo gli infelici mortali abbandonano: la Speranza solo rimane buona Dea”. E’ controverso il significato preciso dell’espressione: secondo la maggioranza dei commentatori il poeta vorrebbe dire che con la fine della vita cessa anche ogni speranza, secondo altri Foscolo si riferirebbe alla Speranza cristiana della resurrezione dei corpi; il Pagliaro annota: “Speranza di che cosa? Che il sasso, il sepolcro, distingua l’identità (e quindi salvaguardi la memoria) del defunto”. In questa esclamazione, e poi nei versi seguenti, è espressa, in forma di malinconica sentenza, la risposta agli interrogativi precedenti. Le frasi brevi e spezzate danno un senso di amara desolazione di una causalità ineluttabile.
vv. 17-18 “e involve”. “L’oblio avvolge nella sua oscurità tutte le cose, annullandole; e la forza della natura le travolge nella legge di perenne trasformazione, e il tempo modifica inavvertibilmente il tutto, dando quasi sembianze diverse alla materia immutabile”. Così avviene per l’uomo, per i suoi progetti, per la sua fiducia nel futuro, per le sue tombe, per le sue spoglie mortali, e così avviene per i vari aspetti dell’universo (della terra e del ciel) i quali non sono che i resti, ciò che rimane (le reliquie) di precedenti trasformazioni. Per il concetto della natura naturante, che tutto trasforma, cfr. la lettera del 13 maggio dell’”Ortis”: “La materia è tornata alla materia: nulla scema, nulla cresce, nulla si perde qua giù: tutto si trasforma e si riproduce”. Già Shakespeare, nell’Amleto, aveva osservato: “Tutto ciò che vive deve morire passando all’eternità attraverso la natura”.
vv. 19-20 “e una forza”. E’ la forza meccanica che agita e muove tutta la materia, il motivo della filosofia rinascimentale: la natura naturante, che genera se stessa perpetuamente. Il “Deus sive natura” di Spinoza. Ma quel precedente “tutte cose”, dove sono confuse e mescolate anche le ossa dei morti, è accompagnato da una pietà per il continuo affaticarsi della materia: fatica che essa non sente ma che il sentimento del poeta proietta dalla vita nella morte, perché in quella materia sente ancora agitarsi e soffrire gli esseri scomparsi. Dall’immagine della morte, seminatrice eterna di ossa, si è passati al travaglio immenso e implacabile del cosmo sul quale, alla fine, dominerà l’immagine del tempo. Nella concezione meccanicistica dell’universo, qui professata dal poeta (o meglio dal suo intelletto raziocinante), non si dà alcuna sopravvivenza oltremondana e la realtà è destinata a sprofondare nella dimenticanza. Per la visione materialistica dell’universo si avverte il ricordo di vari luoghi del De rerum natura di Lucrezio (per es, V, 830-1: omnia migrant / omnia commutat natura et vertere cogit; tutto passa, tutto si trasforma, la natura costringe ogni cosa a mutare).
vv. 20-22 “e l’uomo”. “Il tempo nella sua inesauribile fuga trasforma tutto: l’uomo, trascinandolo rapidamente dalla fanciullezza alla morte; le tombe, corrodendole e distruggendole; le ultime tracce dell’aspetto umano che ancora si attarda nei cadaveri; la terra e il cielo e quanto ancora di essi rimane nell’universo (la terra coi suoi terremoti e sconvolgimenti, il cielo con l’azione delle forze atmosferiche), dando origine a nuovi e diversi mondi”. Gli ultimi tre versi, anche per effetto di un polisindeto trascinante e della compatta unità del periodo logico e ritmico, suggeriscono una vastità e una velocità in cui si rinnovano l’immagine e il sentimento destati già dai vv. 14-15 (che distingua le mie dalle infinite / ossa che in terra e in mar semina morte) ma con un’estensione cosmica. Quindi la risposta è data: nell’uomo che muore si spengono le speranze (la fiducia nel futuro); la materia si tramuta incessantemente; niente nell’universo si sottrae al passare del tempo e ai suoi cambiamenti. Il polisindeto già citato lega una serie di concetti in crescendo, in climax, con toni e ritmi incalzanti: il tutto si chiude con il verbo e il soggetto dell’intero enunciato, “traveste il tempo”, (sono infatti una serie di sostantivi senza verbi). Bella è anche l’espressione, al v. 22, “della terra e del ciel”, che arriva a completamento del v. 15, “ossa che in terra e in mar”: è chiaro il gioco dell’allargamento di prospettive, sempre e comunque rivolte al perdersi dello sguardo nell’infinito (terra, mare, cielo). Ancora una volta, per aumentare l’enfasi, il soggetto è posto alla fine del verso.
Non si può trascurare, per quello che ancora riguarda la musicalità, una sottolineatura sulle assonanze: c’è una trama fittissima di echi e di rispondenze. In “o-e”: forse (v. 2), morte, sole (v. 3), ore (v. 7), dolce (v. 8), governa (v. 9), amore (v. 11), morte (v.15), Pindemonte (v. 16), involve (v. 17), cose, notte (v. 18), tombe (v. 20). In “e-a”: terra, questa (v. 4), bella (v. 5), mesta, governa (v. 9), terra (v. 15 e 22), Dea (v. 17). In “u-e”: urne (v. 1), future (v. 7), Muse (v. 11), fugge (v. 17). In “e-o”: dentro (v. 1), verso (v. 8), tempo (v. 22). In “o-o”: sonno (v. 2), ristoro (v. 13), obblio (v. 18), moto, uomo (v. 20). In “i-o”: amico (v. 8), spirto (vv. 10 e 12), unico (v. 12). In “o-a”: ombra (v. 1), armonia (v. 9), ossa (v. 15), forza operosa (v. 19).
Una notazione finale sul senso del tempo. C’è un tempo breve, quello della vita individuale che culmina nel senso di morte; c’è il tempo della memoria degli uomini, il tempo lungo della storia, il tempo cosmico della natura. Anche lo spazio si allarga: si parte da un angolo di un cimitero per arrivare ad una dilatazione dell’universo infinito. Così si conclude questa intensa introduzione ed io ho finito la mia lezione.
Lara H.