Ubù. Riecco quel genio di Jarry.
Beveva. Sparava nei ristoranti. Si presentava nei salotti in ciabatte. Anticipò le avanguardie.
Le prime avvisaglie c’erano state alle prove generali, ma la sera del 9 dicembre 1896 al Théatre de l’Oeuvre l’atmosfera era molto tesa già prima dell’inizio. Al pubblico normale si era aggiunta una schiera di esteti dai capelli ricciuti che rumoreggiavano e scherzavano nell’attesa che si alzasse il sipario. Poi era apparso Alfred Jarry, piccolo in un abito nero troppo grande, i lunghi capelli neri laccati e il viso incipriato. Quelli delle prime file notarono che il presentatore aveva scarpe da ciclista ed era tutto impolverato.
Aveva parlato per una decina di minuti in tono freddo, ma ben pochi erano riusciti a sentire e quei pochi non avevano capito cosa volesse dire quando spiegava che gli attori portavano una maschera perché dovevano sembrare marionette e recitare come marionette. Ma, quando aveva dichiarato: “L’azione si svolge in Polonia, cioè in nessun luogo”, erano scoppiati i primi tumulti. Jarry soddisfatto aveva replicato con quella che sarebbe diventata una parola famosa: “Merdre!”.
“Ubu roi”. Ubù re fece il suo debutto secondo le previsioni dell’autore. “Bisognava che la pièce non riuscisse a finire e che il teatro scoppiasse”. Gli spettatori reagivano male allo spirito grottesco dell’opera e non riuscivano a tollerare le enormità che la costellavano. “Il nocciolo della commedia”, riassunse Oscar Wilde, “era che tutti, durante i cinque atti, dicevano merdre gli uni agli altri, senza ragione apparente. La commedia è stata talmente fischiata che Jarry è diventato famoso”. Ma a quel singolare ventitreenne la fama non interessava, anzi si godeva le stroncature. Tranne rare eccezioni, i giornali si erano accaniti su quella che sembrava solo un’operazione goliardica. Un anno dopo un amico lontano, Paul Gauguin, lo recensirà positivamente da Tahiti sulla rivista Le Sourire, che stampava in una trentina di copie.
Pochi sapevano che quella era solo una delle ultime rappresentazioni di Ubù re, che oggi ritorna in una nuova meritoria edizione Gallucci a cura di un illustratore di lungo corso, Andrea Rauch, che si è giustamente ispirato ai celebri disegni di Jarry.
Il personaggio del Père Ubù era nato sui banchi di scuola di un liceo di Rennes, ispirato da un grottesco professore di fisica, il Père Hébert. Alfred aveva trasformato in commedia le satire scritte dai compagni e le aveva messe in scena con delle marionette prima in casa e poi al Théatre des Phynances, nel 1888. Le rappresentazioni si erano susseguite, mentre man mano il personaggio si precisava diventando l’immagine del tiranno vile e grossolano, cinico e pauroso.
“E’ un giovane straordinario, molto corrotto”, aveva osservato Wilde “e i suoi scritti hanno talvolta l’oscenità di Rabelais, talvolta lo spirito di Molière, e sempre qualcosa di strano che gli è proprio”. Poi aveva aggiunto: “E’ molto attraente: ha tutto l’aspetto di una marchetta”. Ma più spesso Jarry era visibilmente sporco e si presentava nei salotti letterari con le dita dei piedi che uscivano da miserabili pantofole. Vari biografi fanno risalire l’alcolismo e le eccentricità di Jarry a un’omosessualità repressa. “Io avanzo mascherato alla ricerca di un altro me stesso che avevo perso o da cui ero sfuggito sotto uno pseudonimo”.
I poli della vita di questo singolare personaggio, che interpretava lucidamente la parte del pazzo, erano tre: l’alcol, la bicicletta e la pistola. Detestava l’acqua “che è un veleno talmente corrosivo che l’hanno scelta tra tutte le sostanze per le abluzioni e i lavaggi e che una goccia versata in un liquido puro, per esempio l’assenzio, lo inquina”. Alfred seguiva una rigida dieta alcolica. Iniziava all’alba con due litri di vino bianco, cui seguivano, tra le dieci e le dodici, tre dosi di assenzio. Mangiava pochissimo, spesso pesci da lui pescati nella Senna, ma non lesinava sui bianchi e rossi alternati all’assenzio. Un caffè pesantemente corretto col brandy lo predisponeva agli innumerevoli Pernod. A cena vuotava ogni giorno due bottiglie di vino di bassa qualità. Prima di coricarsi beveva un singolare cocktail: assenzio, aceto e uno spruzzo di inchiostro. Dopo avere scoperto che “bere a stomaco vuoto è meglio”, aveva eliminato il cibo grazie a un semplice calcolo: due bicchieri di assenzio valevano una bistecca, uno una libbra di pane.
Girava sempre in bicicletta, una costosa Clément Luxe 96 che non aveva mai pagato e in casa l’appendeva al muro per salvare le gomme dai topi.
Non si separava mai da una sua grossa pistola pronto a brandirla su chi gli chiedeva un’indicazione stradale o, più semplicemente, lo annoiava. Spesso l’arma era caricata a salve, ma nessuno lo sapeva finché non faceva fuoco su chi gli stava antipatico. A volte nei ristoranti sparava al soffitto, facendosi mettere alla porta. Un giorno, durante un’improvvisata a un’amica, la scrittrice Rachilde, irritato dal fatto che lei volesse finire l’articolo che stava leggendo, aveva sparato sul giornale. Un’altra volta, in campagna, quando la padrona di casa si era lamentata perché, tirando agli uccellini, rischiava di ferire i suoi figli, aveva risposto: “Madame, se dovesse succedere una disgrazia, gliene faremo degli altri”. Combatteva a colpi di revolver contro i ragni che infestavano la sua lurida casa, dove la pulizia era affidata al vento. Ma teneva le ragnatele, che trovava decorative. Il soffitto era talmente basso che solo lui riusciva a stare dritto, mentre gli ospiti preoccupati fissavano i due gufi che abitavano nel camino.
Aveva scritto molte cose, dal “Supermaschio” al “Dottor Faustroll”, ma ormai si identificava col suo personaggio più famoso, Ubù, e parlava di sé alla terza persona, sottolineando le parole con gesti meccanici da burattino. Un anno prima di morire, a 34 anni, aveva scritto: “Il Père Ubù non ha la minima tara… semplicemente si è esaurito… si sta spegnendo piano piano come un motore sfinito”. Sul letto di morte si era bevuto una bottiglia di vino Mariani alla cocaina. Baudelaire aveva chiesto della senape, Jarry volle uno stuzzicadenti. Lo guardò soddisfatto e si spense.
Giuseppe Scaraffia
L’articolo è apparso nel “Venerdì di Repubblica” del 4 agosto 2017, pp. 94-5.