Un giornalista italiano nella Berlino di Weimar
Salotti borghesi, chiacchiere, squisite porcellane. E, fuori, una città, un Paese che stanno per incendiarsi. Il racconto di un grande cronista.
Nel “Venerdì di Repubblica” del 2 febbraio 2018, alle pp. 96-99, è stato pubblicato un articolo di Giuseppe Marcenaro che commenta l’uscita in libreria del saggio di Giovanni Ansaldo, “Il fascino di Sigfrido”, editore Aragno, collazione di articoli scritti dal grande giornalista durante il suo soggiorno berlinese negli anni della repubblica di Weimar.
Gennaro Cucciniello
Ci sono voluti cento anni affinché gli ostinati solleciti di Piero Gobetti trovassero un esito. Quell’insistenza altro non era che la richiesta di un libro, da pubblicarsi nella sua casa editrice, dedicato alla Germania: una raccolta di articoli scritti negli anni Venti del Novecento durante un soggiorno berlinese di Giovanni Ansaldo e pubblicati sul “Lavoro” di Genova. Una selezione di quei testi, in realtà una visione sulla Repubblica di Weimar, esce ora da Aragno con il titolo di “Il fascino di Sigfrido”.
Ansaldo era arrivato a Berlino nel gennaio 1921. Aveva preso alloggio in una elegante stanza della Wilhelmstrasse. “La mia esistenza berlinese è assai tranquilla tra molti giornali e libri, qualche visita e qualche giro per i teatri e i ritrovi, tutti affollatissimi dal pubblico più desideroso di divertirsi che abbia mai visto”. Ansaldo discendeva da una famiglia della borghesia genovese. Goloso di vita, era arrivato nella mitica capitale subito dopo la laurea in giurisprudenza. Recava in sé, tale a un nobiliare usbergo, l’orgoglio degli antenati e la passione per la storia. Suo nonno, Giovanni senior, aveva fondato i celebrati cantieri navali che dai tempi dell’unità d’Italia fin nel pieno del Novecento avrebbero portato il suo nome. Giovanni junior avrebbe potuto diventare un illustre accademico se la passione per la scrittura e l’ostinata curiosità per il mondo non lo avessero depistato, mutandolo in un furibondo scrivente. In un giornalista. Con quello spirito vide Berlino: “I palazzi reali sono ormai delle enormi conchiglie vuote. Sulla cupola del Neuer Palast tre figure di bronzo nel silenzio del parco, sotto l’ostinato gracidare delle cornacchie, innalzano al cielo la corona di Prussia”.
Il viaggio in Germania fu per Ansaldo l’éducation al mondo. Documentava le proprie giornate d’allora in un fittissimo diario (edito sempre da Aragno): una miniera di appunti per articoli pubblicati su “Il Lavoro” –del quale intanto era diventato redattore capo-, sulla “Rivoluzione liberale” e sul “Baretti” di Piero Gobetti.
Della Germania scrisse praticamente tutta la vita: i periodici articoli erano la “memoria” del suo viaggio giovanile nella repubblica di Weimar e la cronaca, un introibo (ingresso) storico, per spiegare la presa del potere da parte del nazismo. Arrivato a Berlino nel 1921, grazie ad alcune conoscenze, Ansaldo era stato introdotto negli ambienti culturali e politici della capitale: “Ho conosciuto Max Harden, uno dei giornalisti più famosi del mondo. E’ il confidente di Bismarck…” (per il suo stile barocco era stato preso di mira da Karl Kraus, che ne scrisse una parodia). Berlino sarebbe stata per Ansaldo un soggiorno di studio e l’iniziazione alla vita. Anche grazie a Eduard Bernstein, deputato socialdemocratico, amico di suo nonno, era invitato alle serate di Cassirer. Paul Cassirer, editore di talento, con la grazia magistrale del mecenate, riceveva a casa propria democratici, socialisti, rivoluzionari. Per essere ammessi al salon, Cassirer chiedeva soltanto la firma sul registro di casa. Abitudinari ai sontuosi buffet, “funzionanti con camerieri in polpe, in saloni strailluminati e protetti da spesse cortine di velluto rosso”, Rudolf Hilferding, socialista al Reichstag, ministro delle finanze, e Hermann Muller, cancelliere della repubblica di Weimar. Arrivavano ogni sera sempre più perplessi: “incapaci di capire il verso del guazzabuglio economico e politico in cui è piombata la loro repubblica”.
Il giovane Ansaldo aveva sottomano la storia nel suo farsi. Da Cassirer approdavano Julij Martov, tristo leader dei menscevichi riparato a Berlino dalla Russia, e Aleksandr Kerenskij, gelido primo ministro dell’ultimo governo provvisorio russo allo scoppio della rivoluzione d’ottobre. Nei saloni della sontuosa dimora non si parlava d’altro. Ramsay MacDonald, sconsolato fondatore del partito laburista inglese e Otto Bauer, leader dell’austro-marxismo, erano gli ospiti di passaggio, mischiati ai fuoriusciti russi che si erano fatti invitare da Cassirer per recare le ultime cifre ufficiali dei massacri perpetrati dai bolscevichi. Tipi dai nomi ignoti con tanta dottrina rivoluzionaria, tanto marxismo, tanto sindacalismo, tanta Internazionale, posavano agognanti gli occhi loschi di chi ha la sifilide ereditaria sulla stellata collezione di porcellane antiche di Cassirer.
I rendez-vous imitavano in privato le pantomime dell’Eldorado, cabaret alla moda della Friedrichstrasse dove tutti facevano gli stessi discorsi, illudendosi di non farli. Il clima era quello di una voliera di confusionari che vivevano gaiamente su una pentola a pressione. Nella notte, affamato di vita, il giovane giornalista che invia articoli ai golosi giornali del suo paese, nell’illusione di avvitarsi vergine a qualche avventura, percorrendo la Friedrichstrasse percepiva abbagli. Anche se tutto si giocava nella sua testa. Tra profumerie e negozi più fashionable spenti, attraverso i suoi racconti ci si illude di sorprendere le porte corrusche del Kit-Kat Club dove si esibiva Sally Bowles, l’eroina di Christopher Isherwood nel romanzo Addio a Berlino, da cui è stato tratto il film Cabaret, con una Liza Minnelli, imitazione Marlene Dietrich, a cavallo di una Thonet, mentre canta Come to the cabaret. Sally si chiamava in realtà Jean Roos. A svelare il mistero fu Stephen Spender, il maliziosissimo amico di Isherwood, convocato a Berlino con un telegramma: Come, here the boys. Ragazzi carini e disponibili. Una sterlina il prezzo per una notte. Spender arrivò di corsa in compagnia di Auden. Sally e Isherwood abitavano in una pensione della Nollendorferstrasse, nel centro della Berlino gay, dove una lapide avrebbe commemorato i cinquemila omosessuali uccisi nei campi di concentramento nazisti. Spender sostiene che Jean fosse una pessima attrice, non sapesse cantare e vestisse in maniera vistosamente eccentrica. Aveva però una coscienza politica. Partecipò alla guerra di Spagna. Più tardi si sposò ed ebbe un figlio. Di lei si sono perdute le tracce.
La storia è figlia del silenzio. Berlino oggi sembra voltata da tutta un’altra parte, ma il suo tempo, attraverso gli articoli di Ansaldo, è totalmente presente. E’ una delle pochissime città al mondo dove è rimasto indelebilmente stampigliato nell’aria tutto quanto vi si è voluto diligentemente cancellare. Al tempo della grande inflazione, nella repubblica di Weimar si respirava ossigeno babilonese tagliato con la cocaina. Tutto era consentito perché c’era la coscienza che il tram di quella vicenda umana fosse arrivato al capolinea. L’incertezza e il clima da macelleria genera mostri. Tanto valeva abbandonarsi in braccia sicure. Hitler non fu un incidente della storia, né un illusionista tanto abile da ipnotizzare la coscienza dei tedeschi. Gli anni dell’incubo che l’austriaco Hitler creò nella sua patria d’adozione furono la fosca esigenza di un popolo e l’autobiografia di una disperazione. Il segno della malattia restò marcato come un tatuaggio per le strade di Berlino.
Dove allora stava il Romanisches Café, all’incrocio tra la Budapesterstrasse e la Tauentzienstrasse, sorse l’Erotik Museum, con il sesso di ogni epoca esibito attraverso curiose performances. Al Romanisches Café scontavano le loro depressioni esaltate scrittori e critici, pittori, musicisti, attrici e schiere di bizzarri che non avevano mai pubblicato un libro, mai maneggiato un pennello, mai scritto sonate. Gente infoiata affollava teatri e ritrovi. Quella che vide Ansaldo era una città che si nutriva di energia umana. “Molti tedeschi intendono l’attuale periodo di pace come la pausa di una guerra non ancora definitivamente conclusa. La città è pervasa dall’infezione rivoluzionaria ed è alla ricerca di un’armata rossa di cui i giornali berlinesi parlano volentieri e scioccamente… Berlino è in apparenza tranquillissima: i colpi di mano e gli attentati si sperdono nella grandezza della città. Ieri, in una strada centrale, un gruppo di giovinastri salmodiava una litania accusando i popoli d’Europa dell’attuale miseria tedesca. Non si salvava nessuno”.
Giuseppe Marcenaro