Una, cento, mille MASCHERE
I volti in pietra del Neolitico e dei faraoni. I personaggi del teatro classico e delle opere di Goldoni, le tracce nei dipinti di Picasso. Coprire il viso è storia millenaria.
Nel settimanale “L’Espresso” del 7 febbraio 2021, alle pp. 76-79, è pubblicato questo articolo di Cesare De Seta.
Con la mascherina conviviamo da tanti mesi e non sappiamo ancora per quanto tempo la indosseremo: non è solo qualcosa che ci protegge dal coronavirus, è una protesi sul nostro volto che ci copre dal naso al mento. Molti psicologi e psichiatri hanno spiegato assai bene gli effetti di questa privazione che riduce la comunicazione con gli altri ai soli occhi, riducendo l’olfatto e cancellando l’effetto labiale delle parole. La mascherina di cui ci serviamo è un pezzo di stoffa con due elastici agganciati alle orecchie: se ne vedono di colori e fogge diverse, con effetti protettivi diversi che ciascun cittadino deve o dovrebbe conoscere.
Non è certo una novità nella storia dell’uomo la maschera, il cui etimo si perde nella storia delle lingue indoeuropee. Tralasciando il mondo mesoamericano e l’Estremo Oriente, c’è una maschera in pietra che risale al neolitico (7000 a.C.) che si vede al Musée Bible et Terre Sainte, a Parigi, tra i primi esempi di maschera che si conosca. La civiltà dell’antico Egitto nella sua plurimillenaria storia offre un repertorio sconfinato di maschere: la più celebre è quella del faraone Tutankhamon (1332-1323 a.C.), che ricopre in materiali di straordinaria preziosità la mummia del defunto. Il Museo Egizio del Cairo offre di queste maschere e mummie un repertorio di grande ricchezza. Qui si vedono non solo faraoni con le loro famiglie ma anche alti dignitari. Paolo Matthiae, ne “I volti del potere. Alle origini del ritratto nell’arte dell’Oriente antico” (Einaudi), narra da par suo questa millenaria storia.
Nel mondo greco, sin dal V secolo a.C. le maschere sono utilizzate nel teatro attico, nei teatri di Atene, di Sparta, delle isole egee e in tutta la Magna Grecia fino all’Etruria. Molte sono parte di corredi di tombe. La più celebre è la maschera funebre detta di Agamennone, con barba, che risale al 1550-1500 a.C., per tale motivo anteriore di circa 300 anni all’epopea omerica: è in lamina d’oro martellata e fu rinvenuta in una tomba principesca dentro le mura di Micene nel 1876 dall’archeologo tedesco Heinrich Schliemann, oggi al Museo Archeologico di Atene. L’archeologo sbagliando evocò Omero. Quel principe dalla folta barba ha caratteri fortemente stilizzati: ha baffi come un moschettiere di Dumas, gli occhi a mandorla sono chiusi e le orecchie ai lati sono piatte. La forma del viso è costruita in modo rigorosamente simmetrico, rispetto a un asse verticale che passa per il naso. Altri due assi orizzontali attraversano gli occhi e la bocca. “Nonostante la schematicità con cui ha “disegnato” il volto, l’artista ha saputo comunque esprimere con efficacia il carattere forte del guerriero raffigurato, esaltandone la nobile, eroica fissità di fronte al mistero della morte”, sottolinea Giuseppe Nifosì, storico dell’arte e dell’architettura.
Ma tutto il teatro del mondo greco nelle commedie e nelle tragedie si serve delle maschere, il cui uso risale al culto di Dioniso, divinità che incarna tristezza e allegria. Esse hanno la funzione di rappresentare i diversi “tipi” in scena: il giovane, il vecchio, il satiro, eccetera e accessori diversi (parrucche, vesti, bastoni, copricapi, scarpe con zeppe). Le maschere avevano la doppia funzione di caratterizzare il personaggio e renderlo visibile anche a grande distanza, considerate le dimensioni di tanti teatri greci. Le maschere hanno caratteri fissi che servivano per attribuire con sicurezza il ceto di appartenenza, lo stato d’animo, l’età e il carattere del personaggio che andava in scena. Le maschere sono più grandi del volto perché qualunque spettatore, anche il più lontano nella cavea del teatro, possa riconoscerle. Hanno anche la funzione di vero e proprio megafono amplificando la voce dell’attore. E’ con le maschere che Aristofane, Sofocle, Euripide o Eschilo esprimono le passioni e i sentimenti dell’uomo e li rappresentano sulla scena.
Le maschere sono base fondante del teatro romano, erede di quello greco. Tito Livio in “Ab urbe condita” narra diffusamente dei diversi autori latini che ne decretano il largo successo: sia in chiave comica, con lo spirito farsesco dei fescennini, che tragica, da cui scaturisce la drammaturgia in lingua latina. La tragedia latina si è sempre basata su miti greci, e raramente su storie romane. Le maschere adottate erano di materiali diversi e simili a quelle del teatro greco giunte dalla Sicilia a Roma. Gli scavi di Pompei ci consentono di vedere maschere tragiche e comiche in affreschi, mosaici e sculture di grande bellezza, ma questo repertorio è ricchissimo in tutto il mondo romano.
La maschera ricompare a Venezia nel corso del Medioevo quando il Medico della peste si protegge con una specie di proboscide di cuoio che contiene sostanze protettive: come si vede in un’incisione assai più tarda. Un olio agli Uffizi attribuito a Ridolfo del Ghirlandaio (1510) raffigura una maschera in cui campeggia la scritta “sua cuique persona” (a ciascuno la sua maschera) con leoni, delfini e volpi simboli di forza, unità e astuzia: un’enigmatica allusione non si sa a chi. La fortuna della maschera esplode con la Commedia dell’Arte in Italia a metà del ‘500 e vive per tutto il ‘700 fino al trionfo europeo del teatro di Goldoni. Le caratteristiche della Commedia dell’Arte in esordio sono molto particolari: gli attori non recitano testi, ma improvvisano in scena “tipi fissi”, cioè “maschere” che tornano da uno spettacolo all’altro: Arlecchino, Colombina, il Capitano spagnolo, Brighella, Pulcinella, Gianduia intrecciavano dialetti e lingue differenti. Così siamo giunti nel mondo dell’arte della modernità: a cominciare da Giandomenico Tiepolo che ci ha lasciato memorabili disegni e incisioni di Pulcinella. Il Carnevale fa la fortuna della maschera in tutto il mondo. Da Venezia a Roma, d Parigi a Vienna la maschera esprime la separazione e la volontà spasmodica di ricomporsi in unità. L’allegria del Carnevale è solo uno schermo: l’aveva ben capito Goethe quando scrive del carnevale romano sul Corso.
Giungendo nel XX secolo, i Manichini metafisici di Giorgio de Chirico sono l’espressione muta dell’uomo-automa contemporaneo: l’homo orthopedicus di cui scrisse sprezzante Roberto Longhi. Questo trauma è ben presente nelle “Demoiselle d’Avignon” (1905) di Pablo Picasso, dove la ricerca dell’unità e dell’universalità trova una risposta nell’archetipo originario, attingendo alle maschere africane che cominciano a circolare in Europa a quel tempo, verso la riscoperta della culla primordiale dell’uomo e della sua anima. Una tela, quella di Picasso, che rivoluziona il modo di vedere il reale e chiude la storia del vedere e del rappresentare che s’era affermata nel Rinascimento con Brunelleschi, Donatello, Alberti e Mantegna. Sulla stessa strada aperta da Picasso e Braque all’inizio del ‘900 si muovono Brancusi, Modigliani e Alberto Giacometti. Le opere surrealiste giocano sulla forma, ribaltano reale ed irreale. Nel corpus di opere grafiche di Alfred Kubin la maschera diviene emblema della dimensione nascosta e parallela al reale, che si manifesta attraverso i sogni. L’ombra di Freud pervade anche le arti figurative, senza che gli artisti forse ne abbiano consapevolezza. L’uomo con la bombetta di René Magritte assume, invece, la funzione di guida che ci conduce in un altrove non identificato. Quello stesso altrove che raffigura nella coppia senza maschera ma tutta fasciata che si dà un impossibile bacio. L’Espressionismo con James Ensor, Emil Nolde, Wasilij Kandinskij fa esplodere i colori sulla tela e preannuncia la notte più buia del secolo in cui visse questa compagine. In tutta l’arte del ‘900 la maschera è simbolo della ricerca di una irraggiungibile identità. D’altronde non è Luigi Pirandello con le sue maschere uno dei protagonisti della letteratura e del teatro del secolo?
Cesare De Seta