Estratti da un fascicolo di 114 pagine, pubblicato nel giugno 1998, custodito nella biblioteca dell’Istituto Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. Gli studenti sono diciottenni.
“Una giornata particolare” di E. Scola (seconda parte)
Sulla terrazza
“Ma che fate, invece di scendere salite?”, dice Antonietta. “Passo dalle fontane, così evito la portiera”, constata Gabriele. “Fate come vi pare!”. E’ sullo sfondo bianco delle pareti e delle scale del palazzo che le due figure si muovono: davanti, lei porta sul fianco la bacinella coi panni; un paio di scalini più sotto la segue lui. Il contrasto chiaro-scuro è fortemente marcato: l’uniformità del nero delle due figure, riprese di spalle, si accompagna al nero del battiscopa e del passamano che incorniciano la prima serie di scalini, al nero che incornicia la finestra e a quello di una pianta sul pianerottolo; questi lievi tratti scuri contrastano col bianco candido dell’ambiente che brilla sotto la luce che filtra dalla finestra. Lentamente i due sfumano e svaniscono dietro la seconda rampa di scale. La cinecamera esita brevissimamente su questo “vuoto” in cui echeggiano le note marziali che provengono dall’esterno. All’improvviso siamo sul terrazzo. Primo piano della bacinella che ora giace per terra. Come cadesse dal cielo, accoglie il primo panno, bianchissimo, ma presto sappiamo che è dalle mani della donna che è lanciato al suolo. Ella, infatti, si introduce nella scena con un passo verso destra mentre “vendemmia” i fili su cui è stesa la biancheria. Con una pedata allontana la bacinella e la cine-camera, alzandosi perpendicolarmente dal suolo, svela l’intera figura accompagnata da quella dell’uomo. “Me lo dovevate dire subito come la pensavate”, pronuncia lei, mentre si muove in parallelo ai fili da cui continua a raccogliere i panni. Lui le chiede di ripetere. Antonietta ripete alzando la voce e si riconcentra immediatamente sul suo lavoro. Il bianco li incornicia e, nonostante la donna assuma un atteggiamento distaccato, li abbraccia: sono una sola macchia scura. Ma per un tempo breve. Lei riprende a camminare e di nuovo i due si allontanano. Procedendo lentamente, lei continua a raccogliere e lui le sta dietro. Per un istante sono tutti e due “appesi al filo”: la cesura di un panno lungo e stretto divide l’immagine in due parti, a destra c’è Antonietta, a sinistra Gabriele che delicatamente toglie due mollette. “Su che?” –lui non capisce. “Sui…(esita un momento) albi di fotografie!”. Lui non ritiene così rilevante la faccenda, perciò chiede quale sarebbe stata la differenza. Con tono deciso ma, allo stesso tempo, condizionato dalla noncuranza dell’altro, lei risponde: “Eh, cambiava… che non vi facevo entrare in casa mia… ecco che cambiava”; un velo di insicurezza sembra essersi steso sulle sue parole. Gabriele le gira intorno e con un determinato slancio provocatorio: “Ma di che ha paura? Lei è così sicura delle proprie idee!”. Prontamente, Antonietta: “Sissignore!”. C’è un distacco tra i due: ancora una volta è la donna che delinea il confine che, ben marcato, deve separarli (è lei, infatti, che nega l’aiuto prestatole: “No, quella roba non è mia!”). Un passo più in là è lei a raccogliere la canottiera che lui ha appena riappeso, ma c’era un buco così! “E poi non mi va di discutere con un uomo come voi, che critica tutto, che prende in giro tutto; voi scherzate sempre sulle cose che non c’è niente da ridere!”. Ma sono veramente parole di disprezzo le sue, o sono piuttosto parole rivolte ad un uomo che tanto sembra affascinarla, per certi versi così simile a lei, per certi altri così estraneo da lasciarla ammaliata?
Gabriele è toccato nel profondo. “No, guardi, io non rido sempre, veramente non ho motivi per ridere!”. Le mani in tasca, guarda in avanti: “Lei, piuttosto, perché non ride? Le cose le vanno bene come vanno! Ha una casa, un marito, sei figli… ma perché non ride?”. Antonietta non si mette in discussione: non è abituata a parlare di sé, è mai successo forse che suo marito e quei suoi sei figli le abbiano mai rivolto una simile domanda? “Eppure questo fatto del Lei, lo sapete che è proibito, no?” –replica- “che è obbligatorio darsi del Voi!”. Prima le due figure, affiancate l’una all’altra, si muovevano lentamente assieme; ora si muovono separate dal filo, coperto dalle lenzuola bianche in senso opposto (lei si avvicina alla cinecamera, lui se ne allontana). E’ di nuovo Antonietta ad essere ripresa in primo piano: di spalle, “naviga” tra il bianco delle lenzuola e un improvviso quanto spaesante silenzio. Si guarda un attimo attorno. “Ve ne siete andato?”. Cerca ancora tra le lenzuola e poi aggiunge, riprendendo il fare distaccato di prima: “Meglio così”… Però poteva pure salutare!”. D’improvviso il lenzuola da cui ha appena staccato le mollette le si rovescia sopra e Gabriele ricompare abbracciandola (il lenzuolo: pretesto scherzoso o simbolo di quell’abbraccio? –in fondo, un velo bianco, neutro). I due cominciano a volteggiare in un disordinato valzer, con le loro parole che si sovrappongono e scivolano verso la risata di entrambi (la cinecamera si è alzata, lasciando così maggiore spazio ai due “ballerini” che si allontanano dai fili per raggiungere lo spazio esterno del suolo piastrellato del terrazzo). Un bellissimo momento è dipinto quando Gabriele svela il volto di Antonietta e i due sguardi, finalmente sorridenti, si rivolgono l’uno all’altro.
Ma lei ha paura di una simile situazione e, mentre gli occhi di lui scrutano il volto di lei (che, evidentemente, deve essersi intristito, è di spalle a noi spettatori), Antonietta reclina il capo a destra e se ne ritorna al suo lavoro. La cinecamera la segue: lenta si muove tra le lenzuola. Gabriele la raggiunge, egli mantiene il fare scherzoso e sorridente dell’azione precedente: “Banale scherzo finito tragicamente!”. Cruda, distaccata e severa la risposta: “Ben vi sta!”. Gabriele, ancora una volta, non capisce: “Che c’è?”. Subito lei incalza bruscamente: “C’è che mi sono scocciata dei vostri… scherzi… chiamiamoli così!”. Di seguito continua: “Io non lo so che cosa vi siete messo in testa, ma vi state sbagliando, questo è certo!”. Il volto spaesato di Gabriele: “Antonietta, io non avevo, ti assicuro, nessuna intenzione!”. Ma lei con tono accusatorio: “No, ma che! Mi avete abbracciata per combinazione! Voi uomini siete tutti uguali… ma io me l’aspettavo”. Cosa sono queste parole? Gabriele è un uomo da allontanare o un uomo a cui lasciarsi andare? “Certo che nel vostro ambiente deve essere diverso!”. Quello è un mondo fatto di attrici, cantanti, annunciatrici, è il mondo di Gabriele. Ora sembra che lei allenti la tensione, sembra che il distacco che prima riusciva a mantenere così rigidamente cominci ad accorciarsi, è come se la maschera lentamente ora le scivoli dal volto. E’ ripresa l’immagine del lenzuolo che l’uomo prende per l’estremità opposta a quella che regge tra le mani la donna: “No, lasciate che faccio da sola”. Il lungo lenzuolo si stende ora tra le loro mani: la cinecamera riprende il busto di lui che si staglia nel chiaro del cielo e di due comignoli e, di seguito, quello di lei che invece è incorniciato dalla penombra di una tettoia. Le due figure avanzano l’una verso l’altra: la “camera” si abbassa, centrandole. “Andatevene”, pronuncia con un filo di voce Antonietta; l’inquadratura si avvicina spostandosi di lato e rivelando leggermente i tratti di lei (mentre l’uomo resta avvolto nell’ombra); di qui possiamo vedere che le sue mani hanno avvolto quelle di Gabriele. “Andatevene, per favore, vi ho detto per favore”. Ed ecco, nel suo protendersi quasi supplichevole verso di lui scopriamo la risposta alle domande precedenti. Antonietta si abbandona, avvicinando quelle mani a sé, prendendole nelle sue mani: “Prima, quando mi avete abbracciato, ce l’avevo più con me che con voi! Perché… perché è da stamattina che vi guardo”. Il volto di Gabriele è ripreso di fronte: impassibile, immobile, fissa diritto davanti a sé mentre quello abbandonato della donna (ripreso in uno stupendo profilo) gli si rivolge. Un brevissimo momento di silenzio, la cinecamera si allontana, Antonietta si lancia verso di lui e lo bacia: “Te ne devi andare, hai capito? Io non mi sogno neppure… mai, mai, è la prima volta… la prima! Dimmi tu, Gabriele… ti prego, dimmi! E’ importante… Gabriele!”. La cinecamera è ora di lato, il volto impassibile di lui, la voce tremante, il tono commosso, i sussurri di lei. L’uomo non risponde, il suo volto si abbassa –come per prendere coraggio- poi si rialza: “C’è una frase nel tuo album: l’uomo deve essere marito, padre e soldato… (una pausa di silenzio) io non sono né marito né padre e né soldato!”. E’ la sua difficile confessione: prende il lenzuolo e si allontana da lei che si volta e lo segue con lo sguardo. “Che vuol dire?”, sussulta (ma davvero non ha capito?). “Non mi hanno mandato via dalla radio per la mia voce… Disfattista, inutile e con tendenze depravate”. “Non capisco”. “Hai capito benissimo!” –si drizza- “E’ così!”.
Antonietta schiaffeggia violentemente Gabriele che, a causa dell’impatto, gira su se stesso. Poi lei raccoglie la bacinella e scappa; tra le lenzuola l’uomo la rincorre, la raggiunge e l’afferra per le braccia. Inveisce contro di lei con dure parole: contro di lei ma anche contro tutti coloro che nella sua vita l’hanno tante volte colpito così. La scena è particolarmente violenta, con frasi pesanti e credo anche difficili da pronunciarsi. Lei, bloccata contro il muro, riesce a liberarsi: “Non mi toccare più!” (più?) e fugge; lui la insegue continuando ad urlare: “Sono un frocio… frociooo!”. E poi, lasciata la terrazza, giù per tutte le scale (la cinecamera li riprende esternamente dalle finestre dei pianerottoli). Lei è terrorizzata, lui arrabbiatissimo. Finalmente Antonietta riesce a raggiungere il suo appartamento. Ed è da qui, appiattita sulla porta, che sente le ultime grida di Gabriele: “Così lo sapranno tutti, finalmente, che l’inquilino del sesto piano è ricchione… è finocchio…”. La macchina da presa lascia la casa dove la donna è in lacrime ed esce sul pianerottolo dove l’uomo, battendo il pugno sul passamano delle scale, pronuncia quasi senza voce, con un profondo sospiro: “… è frocio…”.
Sara P.
Antonietta torna nella casa di Gabriele
Una forchetta tintinna battendo con vigore e velocità sul fondo di un piatto ingiallito, sbatte l’uovo, versato in una padella già calda, dove crepita e frigge in un istante. Le mani esperte di Gabriele sono riprese a trafficare tra i fornelli. L’inquadratura si allarga. La sua faccia assorta, il suo sguardo quasi inespressivo cadono su quello che sarà il suo pranzo. Sullo sfondo una piccola cucina, essenziale, dove fanno comparsa una caffettiera nera sulla stufa, qualche stoviglia accatastata in un canto, una macina e un piccolo mortaio di legno chiaro. Alle pareti, semplici piastrelle bianche, quadrate. D’un tratto suonano alla porta e, sorpreso, l’uomo distrae lo sguardo. Senza mai abbandonarsi ad eccitazione o al benché minimo segno evidente di curiosità, posa la forchetta, si china a ruotare la manopola per spegnere il fuoco e lentamente si avvicina alla porta. Toglie il catenaccio… ed ecco Antonietta, di spalle, con la schiena poggiata sull’altro battente, quello rimasto chiuso: la sua voce timida e flebile, quasi strozzata dall’imbarazzo, dice: “Mi dispiace”. Gabriele, mentre lascia l’uscio e si dirige verso la cucina, la invita ad entrare. La donna si gira, varca la soglia ed accompagna la serratura, tira il catenaccio ed intanto già con lo sguardo cerca lui, l’uomo che in poche ore ha cambiato la sua vita e che ora l’ha resa tanto pazza da introdursi, sfrontata, a casa di un uomo solo. Il suo sguardo, pieno di desiderio ma anche di rimorso e senso di colpa, sembra spiarlo mentre rovescia la frittata in un piatto. Un’inquadratura più ampia riesce ad abbracciare insieme i due protagonisti. Lei è poggiata sullo stipite di una delle due porte che dall’ingresso danno sulla cucina: è silenziosa, seria, rigida e tiene le mani unite sul grembo. Lui (i cui movimenti osserviamo grazie all’altra porta, in visione simmetrica) si destreggia abilmente tra il fornello, la credenza e il tavolo mentre prende l’occorrente per apparecchiare, poi taglia con la forchetta la frittata in due parti uguali ed aspetta che anche lei sieda a mangiare con lui: sa che lo farà, perciò ha già deciso di dividere il suo modesto pasto.
La frittata si spezzetta, la forchetta affonda e la taglia. Gabriele prende un tozzo di pane mentre piano piano vediamo entrare anche Antonietta nell’inquadratura e la sorprendiamo avvicinare un boccone alle labbra. E’ seduta di fronte a lui, lo guarda, ascolta silenziosa anche quando l’uomo le confessa schiettamente di aver finto di non essere omosessuale e di essere persino uscito con una collega, quando ancora lavorava alla radio, pur di convincere i suoi superiori, anche quando non ce n’era bisogno, che era “un uomo maschio, un conquistatore”. E anche quando, nonostante tutto, si era sparsa la voce che egli non fosse che “una mezza cartuccia”, un diverso, egli aveva fatto di tutto, si era persino fatto fare un documento dal medico che certificava la sua virilità, pur di smentire coloro che lo dicevano “un depravato”. E’ una confessione questa che aveva represso per chissà quanto tempo, e che forse non aveva mai confidato a nessuno, ma che ora fa ad Antonietta, come se riconoscesse in lei una vecchia vera amica, una fedele confidente.
Antonietta è sempre lì e poco muta l’espressione del suo volto, per quanto il discorso dell’altro si addentri nell’intimo. I suoi occhi lo scrutano, nella mano tiene la forchetta che di tanto in tanto impugna più vigorosamente per tagliare ancora un pezzo di frittata. Si interrompe solo per chiedergli se avessero creduto al certificato medico che aveva presentato alla direzione. Gabriele si alza, posa il piatto e, mani in tasca, a testa bassa, si avvia verso il corridoio per prendere dalla giacca i fiammiferi. Estrae dalla tasca le sigarette e, pensoso, mentre fissa un punto indefinito, inizia a fumare a piccole boccate. La donna è rimasta seduta in cucina e gli volge le spalle ma continua ad ascoltarlo: spezzetta un pezzo di pane, nervosamente, ma interviene quando egli dice di aver dovuto nascondere le sue tendenze a tutti: “A me però l’hai detto!”. E di nuovo obbietta quand’egli risponde: “Sì, con te ho trovato il coraggio, perché non sei come gli altri”. (E lei): “Non è vero, ti ho pigliato pure a schiaffi”. Ma lui conclude: “Già, però sei qui con me”. Ora è come se Antonietta si ridestasse: posa il pezzetto di pane con cui stava giocherellando, lentamente ruota il busto e si alza, cammina, passo dopo passo, in maniera decisa e gli va incontro, vuole raggiungerlo. E’ alle sue spalle: “ed ora come fai a tirare avanti?”. Gabriele si sposta mentre risponde e lei, seguendolo, ritrova per terra quelle stesse impronte disegnate che la mattina le avevano fatto ballare la rumba: le calpesta, ora ha le scarpe buone, non le ciabatte, e una sottana più lunga nasconde le calze smagliate. Si ferma alla scrivania e prende una busta tra quelle sparse alla rinfusa, la prende con cura, poi l’avvicina al petto e con una mano la sfiora congratulandosi per la bella grafia. Vorrebbe che fosse spedita anche a lei una lettera, una lettera scritta col cuore, ma questo le rammenta anche una storia dolorosa, quella di un tradimento, l’ennesimo di suo marito.
Confida a testa bassa, passeggiando pensosa per la stanza, di essere stata anch’essa umiliata tanto da perdere ogni dignità a autorità agli occhi della famiglia. E’ stata per anni e sarà sempre una serva, indegna di rispetto perché priva d’istruzione, una debole destinata ad ubbidire al volere di un marito-padrone che la tiranneggia e la sfrutta tra le mura domestiche e che la comanda persino a letto. Deve fingere di non sapere che il marito frequenta più il bordello che l’ufficio e si affligge nel pensare che lei è solo la stracciona ignorante che lui incontra la sera, quando rincasa: il corpo sfatto dalle tante gravidanze, strozzato in uno squallido grembiule, il viso sfiorito di una donna che ha bruciato la giovinezza.
Non è casuale il fatto che Antonietta si trovi davanti a uno specchio nel momento in cui riflette sulla sua condizione. Lo specchio, dinanzi al quale la mattina si era guardata nel buffo tentativo di aggiustarsi i capelli e rendersi più bella, diventa lo specchio della riflessione, della resa dei conti, lo specchio per vedere dentro di sé e scorgere più nitidi i dolori, le ingiustizie e tutta la rabbia e il risentimento. Gabriele non può credere alle sue confessioni: credeva all’immagine dell’Antonietta felice e spensierata che lei aveva dato di sé, di una donna che ama la patria e il marito e i figli e trova in essi dei punti di riferimento, dei cardini, di una donna orgogliosa e forte che si fa rispettare. Ora, invece, sembra così vulnerabile, fragile: ha messo a nudo le sue paure, i suoi difetti, le sue idee. Sì, suo marito frequentava donnacce e lei aveva dovuto sopportare ogni sera il degrado di dover giacere con un uomo che aveva già appagato il suo piacere con qualche altra, qualche estranea. Ma ciò che l’aveva fatta star male davvero era l’aver trovato una lettera tra le cose di suo marito, scritta da una maestrina delle elementari: un’amante in piena regola. D’un tratto si era sentita inutile: una donna scriveva a suo marito una lettera d’amore ma c’era di più; quella lettera rappresentava la differenza tra lei e una donna istruita, quella lettera le rammentava la sua ignoranza e la sua nullità. Neppure quando amava suo marito aveva saputo scrivergli una lettera tanto bella, aveva mai potuto esprimere così bene i suoi sentimenti. Ma forse era giusto così, se lo meritava una stupida come lei d’essere trattata così: gli ignoranti sono destinati ad essere oppressi e a dover tacere sotto i colpi del bastone perché non meritano rispetto.
I suoi occhi s’inondano di lacrime mentre Gabriele, accortosi della voce rotta di lei, spegne la sigaretta, appoggia il bicchiere di cordiale che s’era versato poco prima e le si avvicina pian piano, timidamente, da dietro: le accarezza i capelli affettuosamente cercando di consolarla, con una mano le sfiora la guancia umida, ma non le impedisce di gridare il suo dolore, è giusto che lo liberi. Antonietta si porta una mano al volto, poi si gira e lo abbraccia: le mani cingono il suo collo, la sua nuca, mentre quelle di lui stringono i suoi fianchi per poi salire a toccarle i seni. Ma sembra non esserci trasporto in lui, mentre lei muore di passione e gli dichiara il suo amore, noncurante, indifferente alle confessioni udite poco prima. Lo bacia su tutto il viso; sembra un amore infantile tanto è ritratto timido e goffo. Sono i movimenti di una donna che ha ormai scordato cos’è il gioco amoroso, il corteggiamento, il preliminare, il preludio a quell’atto che tanto è importante per il marito ma che non dà gioia senza carezze. Quelli di Gabriele, invece, sono gli approcci stentati di un uomo che, seppure senza soffrire né mentire, sta andando contro la sua natura. Si inizia all’amore con l’altro sesso, senza sapere cosa davvero sia: ne ha paura ma si lascia via via andare alle emozioni. Si lascia cadere attonito sul letto, intontito da questo suo sentimento, dalla situazione, ed Antonietta gli cinge la testa, gli bacia la fronte, le gote, come farebbe una madre col proprio figlio, gli prende la mano e se la pone sul seno. Il viso di Gabriele è quello di un disorientato, un uomo che è tanto imbarazzato da sembrare estraneo, assente; il suo sguardo è fisso e il suo corpo rigido si piega lentamente fino a stendersi sul letto, come il corpo inesperto e titubante di una giovane vergine che si inizi all’amore. Il volto di lei è assetato d’affetto e le sue labbra, le sue mani si prendono l’amore a lungo mendicato. Questo suo sovrastare Gabriele, questo suo prendere l’iniziativa, la fanno rassomigliare ad un uomo che domini con la sua virilità e prenda la sua giovane sposa, la sua amante. C’è un fortissimo contrasto tra la dolcezza e l’innocenza dei baci sugli occhi, sulla fronte e sulle gote che dà Antonietta e la passionalità che invece i suoi movimenti sprigionano; non solo: c’è un contrasto tra la donna che ora può dar sfogo ai suoi istinti e alle sue emozioni e l’uomo che non riesce ad amarla fino in fondo, proprio per la sua condizione di donna.
Ma le mani si fanno strada e trovano spazio nell’altro, i corpi si avviluppano, le labbra si incontrano; le delicate mani di lui affondano tra i capelli di lei, mentre delle ciocche le cadono scomposte sulla fronte e sulle spalle. Il grembiule si apre su un seno generoso e ancora giovane. Ha inizio una danza irregolare di respiri e sospiri mentre la cinepresa, che gira attorno agli amanti, coglie le espressioni dei due: l’una ad occhi chiusi, trascinata dal piacere; l’altro ad occhi sbarrati che guarda sbalordito le sue mani avanzare, farsi strada sulla pelle dell’altra. La musica che sale dalla radio della portiera esplode, quasi a voler dare voce alle emozioni in un tripudio. La cinepresa gira, gira vorticosamente attorno ai due personaggi e cattura, nella sua corsa sfrenata e incalzante, ora il volto di lei, ora quello di lui. Quando coglie il viso di Antonietta, nel suo ossessionante girotondo, la “camera” sembra interpretare lo smarrimento di Gabriele che, come stordito, in piena confusione, vede la sua stanza tramutarsi in un gigantesco imbuto entro cui fanno gorgo le convenzioni, i problemi, le sofferenze, l’immagine dolce di Antonietta e l’indefinibile, strana sensazione che lo attanaglia. Quando invece la “camera” coglie il viso di Gabriele pretende, col suo valzer piroettante, di interpretare l’immensa, conturbante, vertiginosa passione e carnalità che sprigiona Antonietta, ebbra di amore e felicità.
L’inquadratura riprende bruscamente molto dopo, quando ormai Antonietta, rivestita e ricomposta, guarda dal balcone e scruta incredula le finestre di casa sua. Il suo volto è sereno, si sente felice, diversa, non prova rimorso per aver tradito il marito. Giura a se stessa e a Gabriele di volerlo guardare ogni giorno da casa sua, di pensare a lui sempre e di venirlo a trovare alla prossima adunata… e…e… La sua guancia è appoggiata alla sua spalla. Gli occhi di lui sono scuri, le sopracciglia aggrottate di chi sa che queste promesse non potranno avverarsi. “Non pensavo che era così, e tu?”, dice lei. “Essere come sono io non significa non poter fare l’amore con una donna. E’ diverso. E’ stato bello, ma non cambia niente”.
Un gran trambusto proviene dall’entrata del palazzo: la portiera saluta calorosamente tutti i partecipanti alla sfilata che ora tornano a casa, dopo una giornata di forti emozioni, stanchi e felici. La vecchia donna baffuta, nel suo lungo grembiule nero, si affanna a chiedere, curiosa, ad ogni inquilino come sia stata la giornata, com’era Hitler di persona, se si siano divertiti, mentre ognuno la liquida con poche parole entusiaste e raggiunge a passo lesto il portone agitando divertito piccole bandierine tricolori. Alcuni bambini in divisa da balilla salgono di corsa le scale e Antonietta, affacciata alla finestra, si appresta a riassettarsi dopo aver notato: “Stanno tornando”. Attraversa la stanza, si ferma di fronte a Gabriele e i due si prendono per mano, quindi avanzano e si bloccano davanti alla porta dove, le mani strette nelle mani dell’altro, si salutano con un tenerissimo bacio d’addio. Il catenaccio si apre sotto la mano ferma e decisa di lei, la porta si richiude alle sue spalle. Ora la porta è chiusa. Gabriele è ritto accanto ad essa. Sembra stia cercando mentalmente di accompagnare, seguire Antonietta nella sua discesa lungo le scale. Ma, dopo la prima rampa, la donna si ferma e guarda dalla vetrata del pianerottolo la gente entrare a frotte; si accorge che scendendo dovrebbe inevitabilmente passare per il cortile e incappare così nel corteo e nella portinaia ficcanaso, destando sconvenienti sospetti; perciò imbocca nuovamente in tutta fretta la rampa che ha appena disceso e corre, corre di sopra, verso il terrazzo, sbirciando ad ogni piano, dalle vetrate. Intanto giù nel cortile la voce della portiera che sbraita: “Eh, l’ho seguita per la radio, me la sono proprio goduta tutta”. Antonietta sta scendendo l’ultima rampa, con la mano fruga nel tascone del vestito, la testa rivolta alla tromba delle scale e alla gabbia dell’ascensore che sale e sale inesorabilmente. Apre nervosamente la porta e la richiude velocemente.
Due bambini si rincorrono nel cortile (che ha forma ellittica, tipica dei circhi romani) ormai tranquillo, quasi a recitare la parodia della fuga di Antonietta.
Sara Pr.
Storia intensa e malinconica di un incontro
Il pranzo. Una cucina. Un piccolo tegame è sul fuoco. Osserviamo lo sbattere veloce e ritmato di un uomo che emulsiona un uovo e che poi lo versa in una padella posta a riscaldare, facendolo scolare ben bene con l’aiuto di una forchetta. E’ un Gabriele statico, fin troppo composto, distaccato, quasi irrigidito in queste sue quotidiane mansioni domestiche. Il suono del campanello spezza la prevedibilità dell’azione: poggia la forchetta, abbassa il fuoco del gas e si dirige verso la porta, la apre. “Mi dispiace”, è la voce sommessa di Antonietta. Entrambi i protagonisti appaiono di spalle, lui, lei, e poi si vede l’ascensore (che, non so perché, a me fa venire in mente quella baffuta impicciona della portinaia). “Perché non entri? Ho la frittata sul fuoco”, è la voce composta di Gabriele, che poi si dirige a sinistra verso la cucina. La donna è ancora di spalle, sempre in silenzio… poi entra, chiude la porta, avanza piano verso la cucina, si ferma sulla soglia, osserva. In secondo piano, sullo sfondo, l’uomo è ancora alle prese con la sua frittata… ecco, ora la rovescia sul piatto, poi ancora nella padella, coscienziosamente. L’inquadratura ora è ripartita simmetricamente in tre parti: sul lato sinistro c’è Gabriele che apparecchia la tavola, aggiunge un piatto, quasi ad invitarla tacitamente; al centro un cappotto, un cappello, appesi; sul lato destro Antonietta che, appoggiata allo stipite della porta, osserva. Campo medio: ora i due stanno pranzando; la frittata, del pane, del vino, una mano. Fuori campo la voce della parata si intreccia a quella dell’uomo che rompe il silenzio. “Con una mi sono anche fidanzato, una della radio, perché si risapesse. La portavo a cena, al cinema, insomma in tutti quei posti dove ero sicuro che ci avrebbero visto assieme. Mi fingevo pazzo di lei e lei di me… era una buona amica che voleva aiutarmi… ma forse recitavo male la mia parte. Poi un giorno mi hanno chiamato in direzione e mi hanno detto che non facevo più parte della famiglia Eiar, “non hai la tessera del partito”, mi hanno detto. “No, ce l’ho”, dico; “ce l’avevi… te l’abbiamo ritirata perché uomini come te non possono far parte del nostro partito che è un partito di uomini”. Allora io tentai di barare esibendo il certificato medico che dichiarava che, sì insomma, che ero un individuo normale”. “Ci hanno creduto?”, domanda un’Antonietta coinvolta, attenta. Gabriele ora si alza, si sposta verso destra e poggia il piatto, vuoto, sul lavello. “Macché, peggio, certo fu un errore; se uno lo è non va in giro col certificato. No, e questa è la cosa più grave, che sembri di essere diverso da quello che sei, ti obbligano a vergognarti di te stesso, a nasconderti”. Prende qualcosa dalla tasca del suo cappotto, dei cerini. Antonietta, seduta a tavola, giocherella con una briciola di pane, la testa bassa. “A me però l’hai detto”. “Con te ho trovato il coraggio perché non sei come gli altri”. “Non è vero, ti ho pigliato pure a schiaffi”. “Già, però stai qui con me”. La donna sembra riflettere: “è vero, non ci avevo pensato… io sto qui”. Gabriele, volto intenso e concentrato, sta fumando. Antonietta, di spalle, a tavola, fa l’atto di voltarsi: “E come fai a tirare avanti?”. I due si spostano nella sala. “Mi occupo di corrispondenza pubblicitaria per conto di un grande emporio, scrivo gli indirizzi dei clienti sulle buste. E’ un lavoro che mi ha lasciato un mio amico partito più di un anno fa, confinato in Sardegna a Carbonia”. La donna alza il capo. “Era un sovversivo?”. L’uomo si volta nella sua direzione: “Già, sovversivo come me… Andai a salutarlo quando lo imbarcarono a Civitavecchia… ed è stata l’ultima volta che l’ho visto, mentre saliva sul battello…”
Una nota: voglio puntare l’attenzione sul dialogo-monologo di Gabriele dal quale emerge il gioco antitetico di cercare d’essere e di non riuscire ad essere, il non potere. Egli sa benissimo che bisogna sempre adeguarsi alla mentalità degli altri, anche se è sbagliato e se è grave dover violare così la propria persona, dover tentare di annullare se stessi. Ha tentato di recitare la sua parte nella vita ma non c’è riuscito, non è un bravo attore.
Lo sfogo di Antonietta. Le verità rivelate. Gabriele è in posizione frontale rispetto a noi spettatori, fermo. Antonietta è invece di spalle, rivolta verso una scrivania, una finestra. Si volta e con le mani in tasca avanza verso sinistra, osserva un quadro alla parete (appare disinvolta, a suo agio). Eccola, finalmente si racconta: “Pure io tante volte mi sento umiliata, considerata meno di zero; mio marito con me non parla, ordina, di giorno e di notte. E’ da quando eravamo fidanzati che non ci facciamo più una risata insieme… lui ride fuori casa, con le altre”. “Ma come, non ti è fedele? Mi sembravi una moglie felice, sicura”. La donna si sposta ancora, si appoggia su di un armadio a specchio. L’immagine che si viene a creare la rappresenta in rilievo insieme a lui. “Fedele alla patria… Sai quei posti dove vanno gli uomini a pagamento? Lui è conosciuto più lì che nel suo ufficio. Ma finché erano quelle lì; invece il mese scorso ho trovato una lettera di una certa Laura, che fa la maestra elementare in via Ruggero Bonghi… Mettersi con una istruita” (la sua voce d’ora in poi si fa sempre più struggente, fino alle lacrime) “E’ come se un marito, è come dire a una moglie che è una mezza calzetta, una mezza ignorante… Vero, è vero, io a scuola ci sono andata poco o niente e una lettera come quella, anche quando gli volevo bene, non gliel’ho mai scritta, perché non la so scrivere” (piange, poi si ripiglia) “A un’ignorante puoi fare qualunque cosa perché non c’è rispetto” (piange).
E’ stata messa a nudo l’anima maltrattata e umiliata di Antonietta, la sua personale realtà, quella cioè di donna-oggetto, il suo intimo e infelice mondo. Gabriele è dietro di lei mentre confessa e svela (o semplicemente ripropone) a se stessa gli inganni delle costruite apparenze. Egli è l’ascoltatore, l’amico attento e comprensivo… sì, perché è proprio di questo che lei ha bisogno… di qualcuno che le stia accanto senza pretese… che la valorizzi, che la renda viva, che la stia a sentire… che stia a sentire la sua disperazione, il suo tormento, la sua frustrazione, il suo dolore… le sue parole. Ed è proprio il potere della parola che concretizza, contestualizza la realtà delle cose: eccola Antonietta, gli occhi lucidi, la voce rotta dal pianto mentre constata (… e non mi sembra poco…) la condizione deteriorata del suo vivere, mentre prende coscienza di sé e dei suoi fallimenti. La cosa che più mi colpisce è la semplicità di queste parole, di questi pensieri e insieme l’acutezza, l’intensità, la sincerità con cui la donna si rapporta alla realtà (senza ormai nessun tipo di orgogliosa incontaminazione). Ora è nuda davanti ad uno specchio. Si osserva, soffre.
Nel suo discorso molti sono i nodi, i punti sui quali concentrarci. Prima di tutto voglio ricondurre l’attenzione su quel “Pure io” iniziale. Fino ad ora la donna, pur essendosi ripresentata a casa di lui chiedendogli scusa e ascoltandolo, non aveva mai dimostrato in maniera così evidente di essere solidale nei confronti del suo stato, della sua condizione, che in fondo appartiene anche a lei. Ma con quel “pure io” si costituisce un raccordo fra i due, un’unione intensa, come se lei volesse dire: “anch’io come te sono umiliata, anche io non vengo considerata, anche io sono nascosta fra le mura di questa casa, anche io mi sento sola, anche quando sono fra i miei figli… io ti capisco”. Dalle parole di Antonietta emerge poi con chiarezza la figura di suo marito, l’usciere-capo, che abbiamo in precedenza avuto modo di conoscere. Un uomo che non comunica con la propria moglie o, quando lo fa, ordina comanda esige… mai un grazie, un buon giorno (mi riferisco alle primissime sequenze del film). Tutto sembra essergli dovuto. Perché lui, non dimentichiamolo, si chiama Maschio. La moglie è un’ignorante e ad un’ignorante non si parla, si ordina senza spiegazioni. Per quell’uomo lei è uno strumento molto utile: da un lato tiene in ordine la casa, i figli, serve questi ed il marito; dall’altro li sforna i figli, è il mezzo di riproduzione che farà ottenere un giorno, molto prossimo, l’ambito premio di natalità… in fondo suo marito è o non è fedele al partito? E ancora è un donnaiolo privo del minimo pudore, uno di quei tipi che frequentano bordelli, prostitute, ora ha persino un’amante, addirittura da un mese (sembra una cosa seria), una certa Laura, una maestra elementare; e quasi non lo nasconde, lascia allo scoperto le lettere che questa amorosamente gli scrive, come del resto non nasconde il fatto di apprezzare il genere femminile (dà addirittura al figlio giornali in cui poter ammirare “quelle lì”). Un uomo fedele al partito… mi sembra chiaro il tipo di personaggio.
Altra cosa che traspare è un’Antonietta gelosa, rivale. Finché erano “quelle lì” ha sopportato dignitosamente, e sempre in silenzio… aveva per lo meno la certezza che suo marito non provava alcun tipo di sentimento per le altre (in pratica non si sentiva tradita completamente) ma ora ha un’amante e ciò cambia la situazione. Questo vuol dire che lui vorrà alla sua nuova amica un poco di bene (come un tempo ne ha voluto a lei). Oltretutto è una maestra, una istruita… sa parlare, esprimersi bene, con lei si può comunicare. Ancora una breve considerazione. La frase, “una lettera come quella, anche quando gli volevo bene, non gliel’ho mai scritta perché non la so scrivere”, ci fa intuire molte cose. Da un lato l’espressione evidenzia l’incomunicabilità, la difficoltà di leggere i propri sentimenti e riuscire a tradurli al meglio, l’incapacità di esprimersi perché privi di mezzi appropriati; dall’altro constata la fine di un amore (l’uso dell’imperfetto). Ma Antonietta che fa? Sopporta silenziosamente con eroico titanismo (per usare una terminologia leopardiana a noi molto vicina) come d’altronde fa lo stesso Gabriele, condannato al confino. Deve continuare a vivere nelle apparenze, solamente in questo modo resisterà; non può ignorare se stessa, i suoi bisogni ma deve comunque provarci, sopportare le volgari e cifrate (“concepiamo un altro bambino?”) manate sul sedere, i tradimenti… deve tacere. Questa caratteristica, la dualità del personaggio, cioè il conflitto tra Sembrare ed Essere, è una costante che era emersa anche nella confessione fatta prima da Gabriele e più in generale è uno dei temi fondamentali dell’intera vicenda.
Infine non pensiate che la scena si sia svolta nel crepuscolare silenzio o accompagnata da un’opportuna melodia. Siete fuori strada. Lo spazio, l’atmosfera, l’aria erano impregnate di quelle voci fuori campo dissacranti, inopportune, fastidiose del corteo che (in un’alteranza di toni più o meno alti) non hanno smesso un momento. Da un lato i due che scoprono, parlano della loro individualità ignota o negata; dall’altro un cumulo di voci che si annullano sotto l’ululo di un’unica guida. Questa forte antitesi fra Pubblico e Privato è una costante dell’intera pellicola.
Lo sforzo d’amore. Ora i due personaggi sono al centro dell’immagine. Antonietta si volta, abbraccia Gabriele, gli tocca le spalle, lo bacia, gli sussurra: “Mi piaci così come sei, quelle cose che mi hai detto, non me ne importa niente”. L’uomo inizia a toccarle il seno e poi i fianchi. “Sei gentile”. Lei lo accarezza, gli bacia la nuca, lo abbraccia. “Io penso a me”; gli prende la mano e la posa con delicatezza su un seno, “Mi piaci come mi tocchi tu”. Lui non reagisce, i suoi gesti sono freddi. Non mi soffermerò a trascrivere le tredici inquadrature di questa micro sequenza per il semplice fatto che sono un susseguirsi repentino di fotogrammi che montati assieme esemplificano “lo slancio di intimità erotica” fra i due. Sarebbe un lavoro inutile e pedante.
Siamo partiti con i due personaggi reciprocamente diffidenti, poi questa estraneità aveva ceduto alla conversazione, al confronto, alla comprensione, all’affetto. Ora, paradossalmente, si ritrovano ancora abbracciati (la prima volta era stato in terrazza) e poi poco per volta trascinati all’atto d’amore mentre fuori prorompe l’inno delle S.S. naziste. I primi piani mostrano le gestualità, le espressioni, le facce: emerge un’Antonietta coinvolta, appassionata, trasportata e, a contrasto, un Gabriele distaccato, rigido, estraneo, paralizzato, rassegnato, sottomesso, attonito. Ecco l’aggettivo che cercavo: proprio attonito… con quegli occhi sgranati, lucidi, sconvolti… non si aspettava pure lui che la situazione si sarebbe svolta in quella direzione… non ci aveva neppure pensato. Con la frase, “io penso a me”, Antonietta sembra dire “io ho bisogno di questo”; se la pensiamo così tutti noi possiamo giustificare e comprendere (e perché no, anche ammirare) l’atto sacrificale, di bontà dell’uomo che si concede, violandosi, per alleviare l’infelicità della donna. Lui si concede per farla contenta o perché ormai è deluso profondamente e pertanto non gli resta che recitare la vita (come ha provato a fare tante volte… del resto è l’ultima volta; poi sarà confinato…). Potremmo interpretare in altra maniera l’abbandonarsi di lui fra le braccia di lei. E se volesse ricercare, rivivere una dimensione piacevole e lontana? Si lascia andare alle coccole premurose di una mamma; lui è lì che osserva con gli occhi grandi, sgranati, ignaro di cosa succederà poi (nulla di male comunque, può una madre fare del male al proprio bambino?).
Ancora una riflessione. In questa situazione riscontriamo un’evidente inversione di ruoli. Gabriele da omosessuale diventa eterosessuale; Antonietta da tradita diventa traditrice, da oggetto sottoposto a continue violenze a soggetto emancipato (donna che ha l’iniziativa), attivo (da violata a violatrice). I protagonisti si svestono delle loro parti, dei loro ruoli (che la società assegna loro) per poi reinterpretarli, reintegrarli, rindossarli con rassegnazione cosciente, questa volta forse definitivamente.
Il bilancio, il saluto, l’ultimo contatto. Siamo ancora nella casa di Gabriele. La m.d.p., ferma, inquadra una finestra dall’interno e, dall’esterno, una finestra più lontana. Antonietta sorride: “E’ strano, non sento nessun rimorso, anzi con lui non è mai stato così, non pensavo che era così… e tu?”. L’uomo pensieroso, turbato: “Essere come sono io non significa non saper fare l’amore con una donna, è diverso… è stato bello, ma non conta”.
Per Gabriele la giornata è stata importante perché lo ha distolto da un presumibile suicidio, lo ha tolto dal quotidiano isolamento, ha conversato con qualcuno, si è sfogato (che aveva detto in principio? “ho voglia di parlare, anche col primo sconosciuto”), ha capito che non è il solo infelice, il solo emarginato; e infine perché ha compreso che non può essere capito neppure da una persona alla deriva come lui: la vita è priva di speranze e ora accettare il confino risulta meno doloroso. Antonietta sembra collocarsi in un’altra dimensione… il suo sorriso… le sue parole. Ma proprio sul finire anche lei capisce… come sempre… lei umile, ignorante… coglie coscientemente la realtà, quasi alimentata da un meccanismo segreto quasi impercettibile. L’ultima, drammatica battuta è proprio la sua: “e sabato, quando vanno tutti all’adunata, mi basta vederti, starti a sentire”; per un momento vaga, vaneggia con la fantasia… già si intravede… il sabato, quando tutti sono all’adunata, lei accorrerà da lui, il suo amante. Poi però il tono si affievolisce, le parole mutano, forse comprende, quel quadro a terra, quel cappotto, quel cappello. Tutto si riduce al minimo: visto, udito… poi lei rassegnata si appoggia sulla spalla di lui. Pure questo le è negato.
Si conclude così la storia di questo incontro occasionale. Lui partirà la sera, lei tornerà dal marito, dai figli, da Mussolini. C’è in me molta amarezza. Qualcosa è cambiato?
Silvia Z.
I due personaggi
Antonietta (nella sfera affettiva) è inferiore rispetto al marito, ai figli, alla famiglia. Gabriele (nelle relazioni col mondo) è inferiore rispetto alla società degli “Uomini”. Anche la società considera Antonietta inferiore. E’ l’ideologia fascista. Questa ideologia ha privato, in egual misura, entrambi i personaggi anche della loro sfera affettiva. Né una donna, perché tenuta alla sottomissione, né un omosessuale, aberrazione del forte e comune ideale di Maschio, sembrano aver diritto alla tenerezza, all’affetto, alla comprensione dei propri simili. Anche tra i personaggi c’è questo conflitto: per il divario culturale che c’è tra i due, la donna arriva a sentirsi inferiore. Ed allora è all’uomo che il regista affida il compito di bilanciare le parti: la delicatezza verso questa donna, che diventa praticamente subito amica, si evolve in un sentimento potente, nel desiderio che la coscienza e l’intelligenza di lei si scuotano, fino al sacrificio finale, l’atto d’amore.
Perché Gabriele va contro la sua natura? La donna lo forza, lo convince usando un pizzico di prepotenza? Per lui è quasi una sperimentazione? Le due interpretazioni convivono, secondo me. Pur non credendo che per Gabriele il contatto fisico sia stato un’esperienza felice, non credo nemmeno che il suo altruismo arrivi a sacrificare se stesso senza una minima curiosità, uno sbilanciamento pur minimo a livello emotivo. A posteriori, l’amore tra i due sembra l’ultimo assaggio di vita, prima del confino per lui e del ritorno alla prigionia quotidiana per lei.
La molla dell’attrazione. C’è la curiosità verso un individuo diverso, quindi un mondo diverso. L’uno trova nell’altra l’istinto vitale, il coraggio di smascherare se stessi e di offrirsi con sincerità. L’una trova nell’altro uno stimolo, il mondo della cultura e dello spettacolo da cui ci si sente esclusi e che attrae; nella sua attenzione lei trova un riscatto alla sua personalità uccisa dall’indifferenza. L’attrazione è intuizione: ognuno può dare qualcosa all’altro. L’attrazione sta anche nel diversivo che ciascun personaggio rappresenta per l’altro. Ma ci sono anche contraddizioni. Lei chiede solo un po’ di attenzione. Lui vorrebbe solo poter decidere della sua vita: ciò potrebbe avvenire se l’altra gente non si curasse di lui. Per Antonietta l’indifferenza è nemica, per Gabriele l’attenzione degli altri porta ad esiti tragici.
La duplicità del carattere di Antonietta. A grandi linee la potremmo definire una conformista. Fedele, a suo modo, al regime, riveste il ruolo di donna che la società le impone. Per riscattare questa prima impressione il regista ricorre a una metafora, che racchiude in sé un modo di vivere e di pensare, che spiega e di cui si fa simbolo. Tale metafora (ma anche la parola “espediente” sarebbe appropriata) è il libro di foto e di articoli pazientemente assemblato. Quello che la donna compie è un gesto simbolicamente infantile: il ritagliare le foto del duce e tutti gli articoli che gli si riferiscono denota la necessità di attaccarsi sentimentalmente e in modo spettacolare a qualcuno. Per lei, prima che un personaggio politico, il duce è un ideale di uomo: ma un ideale romantico, appunto. Pensiamo una cosa: che ricorda Antonietta di questo individuo? Né i suoi discorsi politici né qualche particolare abilità di governo o strategia militare. Quello che ricorda sono i suoi occhi. Un particolare fisico, dunque. Per lei il duce è l’idolo che per le ragazze dei nostri giorni è un cantante o un attore.
Come una ragazzina, Antonietta ricorda con struggente emozione un incontro casuale avuto col duce. Un semplice sguardo gettatole da Mussolini a cavallo (rivolto proprio a lei?). Ma il suo animo romantico continua a nutrirsi dell’evento, come ci si ricorda di solito del primo amore o dell’incontro con l’uomo della propria vita. Il capogiro che lei attribuisce all’intensità dello sguardo mussoliniano (chiedo perdono per la casuale ironia…) era in realtà un sintomo della sua gravidanza. Eppure lei preferisce ricordarlo a suo modo: uno sguardo di fuoco, degli occhi così penetranti da far perdere i sensi. “Quel giorno stesso scoprii di essere incinta…”.
Tornando al punto da cui siamo partiti, in realtà Antonietta non vive secondo le regole. Hanno assoggettato il suo modo di vivere ma non il suo carattere indomito. Lei non finge di amare il marito con finte moine. A chi è degno della sua considerazione dice con semplicità tutto quello che pensa. In realtà i due si provocano e si mettono poi a tacere a vicenda. E’ esemplare in questo senso la scena del “macinino”: lei è criticata dall’uomo dopo il suo colloquio con la portinaia malevola, secondo Gabriele si adegua come tutti gli altri alla comune mentalità conformista; al che lei risponde: “E voi non avete forse smesso di macinare?”.
Questo titolo. Perché? L’adunata è di per sé un’occasione particolare, sappiamo dunque già dall’inizio del film che la giornata non sarà una giornata qualunque. Il caso fortuito è che sia Antonietta che Gabriele, per necessità differenti, sono costretti a restare in casa. Dai loro atteggiamenti (gli sguardi, i gesti) si evince però che non sono, comunque, accomunabili agli altri. L’incontro è dunque tra due personaggi particolari. Lo scambio che avviene tra i due è pure uno scambio di sentimenti, idee, etc…, che in altre circostanze non sarebbe potuto avvenire. E’ un incontro tra mondi diversi e diversi dal mondo (grande, chiassoso, opprimente) che li circonda. Questa giornata è particolare, infine, per la sua conclusione. Antonietta alla fine del film resta sola: ma la speranza, quella che forte sentiamo guardando i suoi occhi tristi che guardano fuori dalla sua finestra, non ci sarebbe stata senza l’arresto-confino di Gabriele. L’aria che si respira alla fine è quasi un’aria di liberazione: la donna non scorderà questo amico di un giorno.
Ketty B.
Gabriele, nella sera, parte per il confino. Antonietta resta sola
La cena è terminata e lo stesso vale per il lavoro di Antonietta: ha rassettato la cucina e gli obblighi casalinghi per lei sono conclusi. La stanza è illuminata: il contrasto è tra l’esterno buio e la stanza chiara. C’è il silenzio di ogni casa dove la gente stanca è andata a riposare. La donna non vuole andare in camera: lì l’aspettano suo marito e le sue voglie, i suoi festeggiamenti. Non può essere così però, in fondo lei non ha partecipato a quel sensazionale evento, perché ora dovrebbe andare? Perché è una moglie ubbidiente? Non ne vale certamente la pena e poi per una volta è meglio rispettare se stessi e i propri desideri. Si sposta dall’acquaio, i movimenti sono dolce e lenti, cammina intorno al tavolo, si avvicina alla credenza, la apre e prende il libro che le ha regalato Gabriele. Prende anche una sedia e la sistema accostandola (vicino) alla finestra, esita un istante nell’appoggiarla, volge lo sguardo verso l’esterno. Si siede. Così è più vicina a lui, al suo ricordo, alla sua amicizia; non si sistema certo lì per poter godere della luce del sole: è buio ormai. Dalla finestra si vede una parte del palazzo, si vedono le luci degli appartamenti di fronte. Antonietta comincia la sua lettura, il romanzo è forse un modo per cambiare, forse è solo la sua volontà di ricordare quella persona conosciuta, per avere un contatto anche fisico con lui (chissà quante volte avrà poi sfogliato quel volume, letto quelle pagine). La lettura non è scorrevole, sicura; spesso incespica ma è convinta e piena di volontà. E’ quasi un modo per affrancarsi. Si sente il rumore di una pagina girata. “Il primo lunedì del mese di aprile 1625 il borgo di Meung, in cui nacque l’autore del “Romanzo della rosa”, appariva in completo subbuglio come se gli Ugonotti fossero venuti a tentare una seconda Rochelle”.
L’ambiente ora è nuovo: siamo nell’appartamento di Gabriele. La stanza è in penombra, l’unica luce è a sinistra, data da una piccola lampada da tavolo. L’uomo sembra solo, si trova vicino al letto e a un tavolo. Sta raccogliendo le sue ultime cose, le ripone in una valigia che chiude un po’ a fatica e che appoggia a terra. Rassetta il letto e, secondo me, lo fa con una cura particolare, una cura che magari non aveva mai usato: è l’ultima volta che ripete quest’azione in questo luogo, forse ha un particolare significato emotivo. Si raddrizza, si sistema, toglie la giacca da una sedia su cui era appoggiata e la indossa. L’espressione del volto è seria; ormai il momento è arrivato, sta per partire. Dal tavolo prende un oggetto che ripone nella tasca della giacca: è qui che la sua mano entra in contatto con qualcosa di strano, ed ecco riaffiorare alla memoria un ricordo della giornata appena trascorsa: i chicchi di caffè sono la chiave che apre questo cassetto. Alza lo sguardo e lo volge verso le finestre di Antonietta. Né un sorriso né altro sul suo viso ma la mano si socchiude con tenerezza e forse quasi amore sui chicchi, quasi a voler proteggere quei momenti. In fondo ha tentato di smitizzare le false interpretazioni di Antonietta ma lei non riusciva a capire, lui ha rinunciato e le ha parlato più dolcemente, con amicizia (sarà un ricordo inguaribilmente letterario ma vi vedo l’eco del Passeggere leopardiano alle prese col Venditore di almanacchi). Mette in bocca un chicco e lo mastica. Si sposta verso la porta, dopo aver spento la piccola luce, con la valigia in mano. Ora si passa ad un ambiente illuminato da due lampadari, uno nella stanza da lavoro, l’altro nel corridoio. La macchina da presa scende lentamente lungo il corpo di Gabriele: busto, tronco, mani, gambe, valigia, piedi, poi una serie di gambe e di piedi. La valigia è appoggiata per terra vicino ad un’altra. Si vedono le gambe di due nuovi personaggi. “Eccomi, sono quasi pronto”. Il silenzio assoluto è stato interrotto, riusciamo a capire chi sono le due persone da noi mai viste prima. “Fate, fate pure, abbiamo tempo”. Sembrano persone distinte, portano entrambi un cappello e un soprabito. Dal breve dialogo avviato capiamo che sono due guardie venute a prenderlo per scortarlo al traghetto a Civitavecchia. Uno di loro ha i baffi, l’altro no e per comodità (ma non solo) li possiamo chiamare Coi Baffi (CB) e Senza Baffi (SB). “A che ora parte il battello?”. “Fra tre ore”. Nei modi e nelle risposte sembra che SB sia più gentile di CB che, ad una domanda di G., risponde in modo molto secco. –Abbiamo notato che le due guardie potrebbero essere un riferimento al romanzo di E. Vittorini, “Conversazione in Sicilia”; in quest’opera si fa riferimento al “genere umano perduto”, perduto durante l’oppressione del nazismo e del fascismo; lo stesso è per ciò che rappresenta questo film: molti saranno oppressi-. L’azione continua: Gabriele si sposta e prende da terra un quadro, lo depone sul tavolo e lo incarta con fogli di un quotidiano e lo spago. Le guardie sono ferme, a guardare, con le mani nelle tasche e gli sguardi fissi. Nella calma e nella compostezza dei movimenti e delle parole di Gabriele troviamo una rassegnazione ormai definitiva al destino, un’ombra di cinismo. E’ una specie di corazza che ha dovuto indossare per difendersi dalla cruda realtà esterna che non gli permette di essere se stesso, di vivere in pace la sua diversità.
La scena cambia nuovamente. Antonietta è ancora alla finestra, nella stessa posizione che aveva prima che noi “ci trasferissimo” nell’appartamento di Gabriele. Sta continuando nella lettura: “Immaginate un Don Chisciotte a 18 anni, viso…”. Alza lo sguardo e s’interrompe, l’espressione sembra quella di qualcuno perso nel vuoto; i suoi occhi, che diventano la cinepresa, si spostano verso l’ala di fronte e si fermano ad osservare la luce accesa della casa e la figura di Gabriele che si muove. La “camera” ritorna sulla donna che si ferma a pensare, riabbassa lo sguardo e riprende a leggere: “viso lungo, zigomi sporgenti segno di scaltrezza…”.
Ritorniamo nell’appartamento di Gabriele. Egli prende una valigia, si avvicina alla porta e spegne la luce della stanza; prese anche le ultime cose, i tre si avviano verso la porta d’uscita. Gabriele si ferma un ultimo istante: l’ultimo respiro di quest’aria conformista dove tutti vogliono sapere ogni cosa ma non sono pronti ad accettarla, l’ultimo sguardo verso chi ha avuto compassione (nel significato di “co-sentimento”, cioè di provare la stessa emozione): i suoi occhi osservano per l’ultima volta quella finestra come se vedessero Antonietta e qualche flash-back della giornata che ormai volge al termine. Trovandosi a chiudere la breve fila, CB spegne la luce e chiude la porta. Il silenzio è interrotto dal cigolio della porta e dai passi dei tre uomini che escono.
Di nuovo siamo nella casa di Antonietta. La donna sta ancora leggendo vicino alla finestra: “tanto più penosa per il giovane D’Artagnan…”. Sospende la lettura: che abbia sentito anche lei il rumore della porta che si chiude? Alza lo sguardo, ha come un sussulto. I suoi occhi corrono avanti verso l’appartamento dell’amico, la casa è buia, non c’è illuminazione. Si sentono dei passi lungo le scale. La donna si alza lentamente, i suoi occhi (e i nostri) guardano subito le scale illuminate; ecco le grandi vetrate che lasciano scorgere una spirale di gradini percorsi dai tre ospiti, la scorta davanti e Gabriele per ultimo… nonostante tutto ci si fida di lui. La donna respira, segue imperterrita la scena come fosse l’ultimo atto di una tragedia, una tragedia personale. Gli occhi corrono giù, tentano forse di spiegare in maniera differente ciò che già sanno, costruiscono fragili castelli in aria. Gli uomini continuano a scendere, arrivano fino al primo piano, manca ormai poco all’uscita. Il rumore dei passi lentamente e quasi invisibilmente si mescola ad una melodia eseguita al pianoforte. Gabriele svolta, noi riusciamo a vedere Antonietta che è alla finestra, in piedi. La musica continua ad accompagnare i movimenti: è l’inno delle SS naziste. Antonietta è sempre alla finestra: quale dolore le attraversa il cuore? I tre uomini escono sul cortile interno, lo percorrono passando vicino alla portineria, gli occhi dell’osservatrice e i nostri li seguono. A destra dell’immagine vediamo la bandiera del regno italiano: i tre colori della libertà e lo stemma sabaudo, è la bandiera che la portiera al mattino ha accuratamente preparato per festeggiare la giornata. Anche lei assiste, inerme ma anche colpevole, alla deportazione di un uomo. I tre camminano in fila indiana; è buio, si percepiscono le immagini in modo non nitido. Le tre figure inforcano il portico.
Antonietta chiude il libro che ha tra le mani, sul suo volto domina un’espressione tra il serio e lo sconsolato-realista. Gli occhi si muovono velocemente, lucidi, quasi piangenti, una breve occhiata al libro chiuso, trattiene a stento le lacrime. C’è la luce forte della lampada della cucina. La musica è sempre dolce, carica le immagini di emozione, di tristezza ma anche di rabbia verso qualcosa che non abbiamo potuto correggere, non abbiamo potuto evitare. Lei guarda giù, lì dove è appena passato il suo amico-amante, forse nella speranza di poterlo veder riapparire ancora un’ultima volta, forse per avere la certezza definitiva che tutto è finito per prendere coraggio e andarsene a dormire. Ciò che vede è uno spazio vuoto, deserto. La “camera” inquadra in lontananza quella donna e la sua storia, lì in piedi vicino ad una finestra, lì sola. Antonietta ha sempre con sé il libro, socchiude la finestra. Sempre adagio e con dolcezza la cinepresa entra in casa, segue la donna che si sposta verso la credenza, che gira leggermente il busto e che incontra con lo sguardo il lampadario. Ogni cosa ricorda il passaggio di Gabriele nella sua vita, un passaggio tanto leggero ma non impercettibile, che ricorda quello di un’effimera brezza. Depone il libro e spegne la luce. Si avvia verso la camera da letto. Chiude tutte le luci; solo il flebile chiarore di un piccolo abat-jour rimane a definire i contorni delle figure. Si toglie le vesti dimesse, per terra è proiettata la sua ombra, con calma s’infila la veste da notte, si copre. La sua mano (un dettaglio) spegne la piccola lampada; vicino a questa ci sono una sveglia (che segna le 22: 55) e un pagliaccio-Pinocchio sorridente. Cosa può significare quest’ultimo? Forse che non si può far altro che ridere e soffrire della propria condizione? L’interruttore è premuto, la luce tolta. E’ il buio che prende il sopravvento e chiude questa giornata particolare. Man mano che le luci scompaiono si passa da una luce forte ad una via via più bassa, poi alla penombra –data dal lume dell’abat-jour- e infine, quasi a seguire un anticlimax, al buio totale. Per tutto il tempo a costituire la colonna sonora è l’inno nazista delle SS con un intreccio, stupendo e formidabile, con la musica della rumba che aveva fatto goffamente ballare i due protagonisti solitari in un momento della mattinata. L’armonia è dolce, triste; la traduzione al pianoforte dà alla musica nazista un carattere mesto, quasi abbandonato. La grande storia e la piccola vita quotidiana sono così fuse mirabilmente in una malinconia di morte.
Francesca F.