“Utopia” di Thomas More compie 501 anni. Non una fuga nel sogno ma un modello a cui ispirarsi.
Thomas More (1478-1535), umanista e uomo politico, futuro Lord Cancelliere del regno d’Inghilterra, scrisse nel 1516 un saggio che intitolò “Utopia”. Il libro non è la semplice narrazione di un sogno umanistico nobile e astratto ma è soprattutto un’analisi acuta dei fenomeni caratteristici di un’epoca di gravi difficoltà storiche e, nello stesso tempo, un serio programma di riforme e una meditazione razionale sull’uomo e sul suo destino. More attacca la vita delle corti e il comportamento dell’aristocrazia dedita solo alla guerra e alla conquista, sempre alla ricerca di nuove fonti di ricchezza e di potere. Esamina le cause di fondo della grande miseria delle classi popolari: l’alto clero e i nobili distruggono le antiche colture, abbattono case e villaggi, costringono masse di poveri a dedicarsi alla mendicità o al furto. Invita chi detiene il potere a restaurare l’agricoltura e ad organizzare le manifatture in modo da impiegarvi il maggior numero possibile di poveri oziosi. E’ quindi la sua una satira dell’Europa cinquecentesca: non senza provocazione, egli prefigura una società in cui la proprietà privata viene eliminata, in modo che ricchezza o povertà siano ripartite in modo equo tra tutti. In questo non-luogo felice ognuno lavora, ma non oltre le sei ore giornaliere, affinché si disponga del giusto tempo libero per dedicarsi alle proprie passioni e, in particolare, alla cultura scientifica e filosofica. In materia religiosa vige grande accondiscendenza, a patto di credere nella provvidenza divina e nell’immortalità dell’anima.
Ma More non nutre molte speranze, non crede che sia facile mutare i costumi, i desideri e le abitudini dei suoi contemporanei, dominati dal potere demoniaco del denaro. Così il sapiente traccia il modello di una “città virtuosa”, conforme alle norme del bene civile non meno che a quelle delle vere virtù del Vangelo. More sarà giustiziato nella Torre di Londra nel 1535 per ordine del re Enrico VIII.
Il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato, l’8 gennaio 2016, alcuni interessanti contributi di analisi che approfondiscono bene, da angolazioni diverse ma convergenti, questo tema così affascinante e così sfuggente.
Gennaro Cucciniello
Quell’isola che non c’è, diventata la madre di tutte le Costituzioni
Thomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere Cancelliere del re Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici)). “Utopia” è il capolavoro di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non è un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo. Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza. La legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o a una classe; la vita pubblica aborre la retorica perché menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle sue città federate si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica –non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata. L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire.
Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è ma del quale non si può fare a meno.
Nadia Urbinati
Una spinta all’emancipazione sempre a rischio totalitarismo
Fin nel suo stesso nome –che rimanda a un luogo perfetto ma inesistente- l’utopia presenta un’ambivalenza costitutiva, che percorre la sua intera storia. Sempre oscillante tra realtà e immaginazione, letteratura e politica, dogmatismo e critica, essa è stata alternativamente vista come prodromo del totalitarismo e come annuncio di libertà. Ricondotta da alcuni alla “Repubblica” di Platone, essa è in realtà un genere essenzialmente moderno, risalente al XVI° secolo. Diversamente dai racconti utopici di matrice ellenistica –come quelli di Evemero, Ecateo, Giambulo-, che guardano a una mitica età dell’oro situata nel più remoto passato, l’utopia rinascimentale si rivolge piuttosto al futuro. La stessa idea di “isola”, in cui è collocata da More, simboleggia lo strappo dalla terraferma della tradizione classica e cristiana.
Certo, essa intende ricostruire una condizione di uguaglianza naturale, ma attraverso strumenti artificiali e una pianificazione di tipo tecnico. Non per nulla, soprattutto nella “Nuova Atlantide” di Francesco Bacone, la scienza ha un posto di rilievo. Lo stato perfetto non è dato in natura ma è il prodotto di una determinata progettazione umana.
Proprio questo elemento di pianificazione integrale, volto alla produzione di una società perfetta, espone però l’utopia al rischio della degenerazione. Ben visibile nella Città del Sole di Campanella, tale carattere ingegneristico percorre le utopie settecentesche e ottocentesche. Neanche la critica di Marx al socialismo utopistico di Saint-Simon e di Fourier, in nome di un socialismo scientifico, risulta immune da una tendenza totalizzante. Ciò spiega il ribaltamento del racconto utopico nella sua versione distopica operato, nel ‘900, nel “Mondo nuovo” di Huxley e in “1984” di Orwell. Eppure questa condanna non chiude la storia dell’utopia, come dimostra il suo rilancio nello “Spirito dell’utopia” e nel “Principio speranza” di Ernst Bloch.
Una volta caduta la pretesa prometeica della perfettibilità del genere umano, l’utopia conserva intatta la propria carica emancipativa nei confronti dei poteri esistenti. Si direbbe che essa resti valida a patto di non immaginarsi integralmente realizzabile –di restare un disegno aperto, incompiuto. Come insegna Kant, le idee della ragione non sono destinate a concretizzarsi nella realtà ma, se assunte come ideali regolativi, la possono spingere verso esiti apparentemente irraggiungibili.
Roberto Esposito
Il “principio speranza” oltre i calcoli della ragione
A proposito di utopia occorre sempre ricordare quanto scriveva Oscar Wilde nel 1891: “Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione” (“L’anima dell’uomo sotto il socialismo”). La capacità di utopia però, chiamata da Ernst Bloch “il principio speranza”, è imparentata con un superamento della ragione calcolante e per questo all’uomo coi piedi per terra appare spesso irrazionalità e follia. Non è quindi un caso che, qualche anno prima del capolavoro di More, Erasmo da Rotterdam avesse dedicato a lui l’”Elogio della follia” (1509), composto proprio nella casa londinese di More.
Ma cosa permette di distinguere l’utopia dall’immaginazione fantastica e dall’illusione? E’ il fatto che l’utopia rimanda sempre a un luogo, a un topos; di esso, di cui si dichiara consapevolmente l’inesistenza qui e ora, si avverte il bisogno per mostrare quale potrebbe e dovrebbe essere il volto più vero dell’esistenza. L’utopia perciò non è fuga dal reale, ma penetrazione nella sua essenza più autentica grazie a una più acuta capacità di visione. Prendiamo l’essere umano: limitandosi a ciò che appare, può essere considerato solo un grumo di istinti e di voglie, ma nella luce del pensiero utopico diviene soggetto di armonia, creatore di bellezza, promotore di giustizia e apparire come il fenomeno più nobile prodotto dall’universo. Qual è la prospettiva più realistica? La prima. Qual è quella più produttiva? La seconda. Lo statuto epistemologico del pensiero utopico appare quindi paradossale: si fugge con la mente in un luogo inesistente ma, ben lungi dall’alienarsi nelle illusioni, si diviene più capaci di incidere sulla realtà. Non ci si lascia scoraggiare dalla pesantezza del quotidiano ma lo si trasforma.
Si impone però la domanda decisiva: qual è la sorgente del pensiero utopico? Come nominare cioè quella dimensione dell’essere più alta rispetto alla piana del reale e per questo capace di illuminarla e di riformarla? Un tempo si chiamava Dio e l’utopia era religiosamente connotata. Poi la si chiamò società socialista e l’utopia divenne politicamente connotata. Il libro di Thomas More, come già la “Repubblica” di Platone, rappresenta una felice sintesi delle due prospettive, all’insegna di un’ideale teologia politica e di una politica spiritualmente connotata. Stiamo ancora aspettando di vedere la realizzazione di qualcosa di simile ma credo che coltivarne la prospettiva sia una forma di felice utopia.
Vito Mancuso
L’idealismo ormai lontano dal mondo del lavoro
Nonostante l’incandescente fantasia di Thomas More (o di Campanella) la distanza tra l’utopia e una realistica riforma è esposta al tira e molla della retorica e all’interesse di chi deve pagarne il prezzo. Nell’isola inventata dall’inglese si lavorava sei ore al giorno, nella “Città del Sole” del filosofo calabrese solo quattro. Erano davvero utopie e lo sono rimaste. Ma per molti è rimasta utopia la limitazione a otto ore, anche dopo che una convenzione internazionale l’ha sancita come un diritto nel 1919. Ancora più utopia oggi la piena occupazione. Il fatto è che a meritarsi cattiva fama non sono stati gli ideali ma alcuni vizi che si accompagnano spesso all’utopia e fanno sì che venga regolarmente trasformata in incubo. Il vizio non è l’altitudine del desiderio ma quello che i grandi critici dell’utopismo –due per tutti: Karl Popper e Isaiah Berlin- hanno identificato come il suo aspetto più pericoloso: la convinzione che si possa realizzare una società perfetta, esente dai comuni difetti –egoismo, avidità, opportunismo, eccetera. Il perfezionismo è dunque parente stretto del costruttivismo rivoluzionario, il quale ritiene, attraverso una élite che si auto-investe del mandato, di conoscere la direzione della storia.
Che alcuni sappiano dove va quel fiume fa sì che i prezzi di sofferenza da pagare siano soltanto un inevitabile pedaggio per liberare il suo corso dagli impacci (Popper), mentre gli eletti che cucinano la storia continuano a rompere una quantità crescente di uova giustificandosi, come faceva Stalin, con il bisogno di fare una omelette, che però non arriva mai in tavola (Berlin). La cura di questo vizio che tende sempre a ripresentarsi, incontenibile –il desiderio di purificare l’umanità accompagna anche le pulizie etniche- sta sia nel coltivare moderazione e gradualità delle riforme sia nell’accettare quella varietà e imprevedibilità di comportamenti che ripropongono l’evidenza del nostro essere fallibili. E diversi. E’ il dato inoppugnabile su cui Voltaire costruiva l’edificio della tolleranza.
La grandezza degli ideali non è dunque da reprimere. Non era, non è gigantesco l’ideale della cittadinanza cosmopolitica? O quello della pace perpetua in un mondo tutto democratico? Eppure proprio in quelle stesse pagine in cui ne parlava, Emmanuel Kant, che perfezionista non era, collocava la celebre riflessione sul “legno storto”, come quello di cui è fatto l’uomo, da cui non si ricaverà nulla di interamente diritto. “Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura”.
Giancarlo Bosetti