V secolo d.C. Quando i barbari migranti invasero Roma

Quando i migranti invasero Roma

Masse di “barbari” che premono ai confini. La politica incapace di ridurre le diseguaglianze. Non vi dice nulla? Un grande storico rilegge la caduta dell’Impero romano alla luce della crisi di oggi. Ma avverte: piano a tirare le conclusioni.

 

Questo è il testo d’una lezione dello storico Peter Heather al Festival Internazionale di Storia di Gorizia, pubblicato nel “Robinson di Repubblica” di domenica 13 maggio 2018, alle pp. 6-7. Heather ha scritto “La caduta dell’impero romano” (2006) e “L’impero e i barbari” (2010), entrambi per Garzanti.

 

Le migrazioni svolsero un ruolo di primo piano nella caduta dell’Impero romano d’occidente. La grande maggioranza dei nuovi Stati che sorsero dalle sue ceneri affondava le proprie radici in un nucleo di guerrieri “barbari” (goti, vandali e via dicendo) dalle cui élite sarebbero emerse le dinastie dominanti dell’occidente post-romano. Che gli invasori siano stati la causa o il risultato del collasso dell’impero nel V secolo d.C. non è chiaro; tuttavia essi furono, senza dubbio, coloro che più ne beneficiarono. I recenti flussi di rifugiati politici ed economici verso l’Europa non hanno infiammato solo i dibattiti politici: anche quelli storiografici ne sono usciti rivitalizzati, in particolare quelli sui fenomeni migratori, e non da ultimo sui legami fra questi e la caduta dell’impero romano. Chi furono quegli antichi migranti? E cosa possiamo imparare dalla loro storia?

Fino agli anni Sessanta del ‘900 nessuno avrebbe messo in dubbio che si trattasse di “popoli” veri e propri, unità dotate di distinte culture materiali e immateriali. I protagonisti della caduta di Roma erano visti solo come esempi specifici di un antico e tradizionale modello di unità sociale tipico della storia europea. Questi popoli venivano quindi considerati gli antenati dei moderni Stati-nazione, come gli anglosassoni in Inghilterra e molti altri. Questa ampia visione di un passato europeo, plasmato dalle migrazioni, emerse nel tardo XIX secolo da una combinazione di studi filologici, storici e archeologici, abbinati alla diffusione della scolarizzazione di massa. Il risultato fu il profondo radicamento nella coscienza popolare di una visione del passato basata su due principi cardine. Il primo era l’idea che l’Europa fosse il prodotto di una serie di invasioni risalenti all’arrivo dei cacciatori-raccoglitori intorno al quinto millennio a.C.; secondo questa visione, quella che causò la caduta di Roma fu solo l’ultima di tante ondate. Il secondo era invece che molti degli Stati-nazione emersi dal crollo dei grandi imperi multietnici europei nel XIX secolo avessero pedigree culturali risalenti a un passato molto lontano. La “nazione” diventava così il miglior principio di organizzazione sociale, in quanto ripristino di un ordine più antico e legittimo rispetto al caos plurinazionale del Medioevo.

A partire dal 1945 si è reso necessario riscrivere del tutto una parte di questa narrazione. Di fronte agli eccessi dei nazionalismi, responsabili dei disastri della Seconda guerra mondiale, una profusione di nuovi studi ha dimostrato che le nazioni moderne non sono direttamente riconducibili ai migranti di tempi remoti. Gli Stati-nazione hanno storie molto particolari e più recenti, che poco hanno a che vedere con gli antichi migranti, ma molto con l’industrializzazione, le comunicazioni moderne e l’educazione di massa. Sono questi fattori, coi correlati sviluppi, ad aver reso possibile per la prima volta nella storia la centralizzazione politica e l’organizzazione della popolazione di vaste aree in strutture culturalmente omogenee. Questa necessaria riscrittura del passato europeo è risultata in tentativi di minimizzare l’importanza complessiva dei fenomeni migratori, sia nel contesto preistorico che per quanto riguarda la caduta di Roma. Nell’ultimo quarto del ‘900 divenne norma scrivere di preistoria meno in termini di migrazioni e più in quelli di una lenta espansione di popoli, perlopiù omogenei, attraverso l’Europa. Applicato alla caduta di Roma, questo Zeitgeist si manifestò in una riscrittura degli eventi, dove gli invasori venivano visti come bande armate di non più di un migliaio di guerrieri (esclusivamente maschi). Le più fortunate avrebbero fondato gli Stati successori dell’impero romano, reclutando nuovi membri sul territorio, spesso attingendo a un bacino di sudditi scontenti. Queste interpretazioni minimizzavano il numero dei veri migranti, e si concentravano sulle debolezze dell’impero per spiegarne il collasso. Nel contempo, però, un nuovo corpus di evidenze archeologiche stava dimostrando che, a differenza di quanto si pensasse, l’impero romano non aveva raggiunto l’apice della prosperità economica nel II secolo, per quindi iniziare un lento e costante declino. L’apice fu in realtà raggiunto nel IV secolo, proprio alla vigilia del collasso. Ciò è sufficiente a dimostrare che, pur con tutti i suoi limiti, il sistema imperiale romano, per crollare, ebbe bisogno di una spinta decisiva dall’esterno. Tutto porta a pensare che i fenomeni migratori abbiano svolto un ruolo molto importante in questa storia.

La nostra comprensione del passato europeo, ad esempio, è stata rivoluzionata negli ultimi cinque anni dalle più recenti scoperte della genetica. I moderni europei discendono tutti da tre gruppi: i cacciatori-raccoglitori, gli agricoltori del vicino Oriente che li seguirono un millennio più tardi e da ultimo, altri mille anni dopo, i popoli delle steppe eurasiatiche. Il Dna dei moderni europei è una combinazione –in percentuali diverse- di questi tre distinti ceppi. Noi sappiamo poco di queste prime migrazioni, ma se nessuno di questi gruppi costituiva un “popolo” nel senso ottocentesco, il fenomeno migratorio in sé torna a ricoprire un ruolo molto più centrale nella storia dell’Europa. Lo stesso dovrebbe quindi valere per la caduta di Roma. Anche in questo caso non stiamo parlando di “popoli compatti”. La maggior parte della forza militare degli invasori era senz’altro rappresentata in origine da non-romani, ma esaminando il problema senza pregiudizi dettati dal nazionalismo, le prove indicano che i popoli migranti che succedettero all’impero –vandali, visigoti, ostrogoti, franchi- erano in realtà nuove coalizioni createsi in loco. Questi coacervi presero forma perché gli immigrati necessitavano di un maggior numero di soldati per sopravvivere ai contrattacchi romani.

Tutto ciò ci dice anche qualcosa di importante su queste migrazioni del tardo periodo romano. Un flusso migratorio tenderà sempre a formarsi negli spazi compresi fra due punti in cui lo sviluppo è fortemente ineguale –da luoghi di povertà a luoghi di ricchezza- nella misura in cui sono disponibili informazioni e mezzi di trasporto, e nell’assenza di intervento da parte dei poteri politici. Il mondo romano era, da un punto di vista economico, molto più sviluppato rispetto ai vicini a nord e a est: in casi simili la formazione di un flusso migratorio è tutt’altro che sorprendente, e il fenomeno ha attraversato con costanza l’intera storia romana (basti citare, ad esempio, le guerre a nord di Mario e di Marco Aurelio). Le migrazioni economiche possono coinvolgere grandi numeri di persone, ma ciò avviene in flussi di intensità crescente: le ondate massicce invece (come confermano gli esempi più recenti della storia europea) sono sempre il risultato di crisi politiche. Le migrazioni sono di regola un’esperienza così stressante, drammatica e potenzialmente pericolosa da richiedere degli stimoli davvero forti alla sua origine per causare lo spostamento di numeri di persone così ampi. Nel tardo IV secolo i normali spostamenti di popolazioni alle frontiere furono stravolti dall’ascesa del potere unno, che dalle steppe spinse numerosi sudditi di Stati-clienti oppressi dall’impero ad attraversare i confini in gruppi coesi di rifugiati politici. Questi si ricompattarono a loro volta in coalizioni più solide, che rovesciarono il sistema dall’interno. Prima ne sconfissero gli eserciti, dopo di che si annessero le province, serbatoi fiscali essenziali alla sopravvivenza dell’impero. Il risultato diretto fu il rapido passaggio, nell’arco di pochi decenni, dalla prosperità all’annientamento. Si tratta di un momento storico sorprendente e affascinante, ma quale insegnamento possiamo trarne noi, oggi?

Alcuni politici populisti su entrambe le sponde dell’Atlantico hanno le idee chiare: la difesa della nostra ricchezza e della nostra cultura è possibile solo bloccando i flussi migratori. Il terrorismo fa certo paura (io lavoro a Londra e lo so bene), ma anche un numero di vittime infinitesimale rispetto a quello provocato dalla criminalità “autoctona”. Le migrazioni moderne, inoltre, rappresentano una minaccia diversa per la prosperità economica se confrontate con quelle dell’epoca romana. Nel mondo antico l’unica fonte di ricchezza era la terra. Dal momento che l’aumento della sua produttività era un processo lento e difficile, l’unica possibilità di arricchimento per i nuovi arrivati era impossessarsene. Ciò non vale per noi oggi, in un mondo in cui le fonti di ricchezza sono molteplici e l’economia cresce, per quanto a ritmi ben più lenti rispetto al secolo scorso. L’età media della popolazione europea si sta alzando, e l’immigrazione presumibilmente aiuta a mantenere l’equilibrio necessario per sostenere i sistemi pensionistici e sanitari. Non è l’immigrazione, come spesso si afferma negli accesi dibattiti politici, ad aver minato la prosperità delle classi lavoratrici occidentali: la causa è da ritrovarsi nel trasferimento della produzione nei Paesi in via di sviluppo. Ciò nulla ha a che vedere con l’arrivo dei migranti in Europa.

La lezione, a mio vedere, va cercata altrove. Fu il sistema imperiale romano a creare gli squilibri economici che resero l’immigrazione inevitabile e, aggiungerei, a compattare politicamente i migranti che lo avrebbero infine sfidato. Si tratta anche di un semplice e ricorrente esempio del ciclo vitale di un impero: quando cioè le conseguenze economiche e politiche di un incontrastato dominio –discorso che vale tanto per Roma antica quanto per l’odierno Occidente- finiscono inevitabilmente con il generare flussi migratori e altre minacce politiche ed economiche allo status quo. Da questa prospettiva la vera sfida non è fermare l’immigrazione –cosa impossibile a farsi- ma riconoscerne le cause e impegnarsi a trovare una soluzione che soddisfi tutte le parti, ben sapendo che non sarà facile. Come conferma lo studio del Dna, il continente europeo è stato ciclicamente reinventato dalle migrazioni. Non vi è motivo di pensare –a dispetto di tutti i problemi correlati- che ciò debba cambiare così, all’improvviso.

 

                                                                     Peter  Heather