Wallace Stevens (1879-1955), “La donna al sole”, 1949
E’ solo che questo calore e movimento sono come
il calore e movimento di una donna. 2
Non è che ci sia un’immagine nell’aria
né l’inizio o fine di una forma: 4
c’è vuoto. Ma una donna in un oro senza venature
ci brucia con gli sfioramenti della sua veste 6
e una dissociata abbondanza d’essere,
più definita per ciò che lei è- 8
perché lei è incorporea
e porta gli odori dei prati estivi, 10
riconoscendo il taciturno eppure indifferente,
invisibilmente chiaro, il solo amore. 12
The woman in sunshine
It is only that this warmth and movement are like
the warmth and movement of a woman. 2
It is not that there is any image in the air
nor the beginning nor end of a form: 4
it is empty. But a woman in threadless gold
burns us with brushings of her dress 6
and a dissociated abundance of being,
more definite for what she is- 8
because she is disembodied,
bearing the odors of the summer fields, 10
confessing the taciturn and yet indifferent,
invisibly clear, the only love. 12
da “Aurore d’autunno”, 1949
Non c’è poesia senza ragionamento: ma per alcuni poeti il ragionamento nasce istintivo insieme alle parole, quasi senza doverci pensare, mentre per altri è un problema, anzi può diventare il tema stesso della poesia. Così è stato per Stevens, poeta tardivo, appartato dirigente in una compagnia d’assicurazioni: agli esordi esagerava in metafore e visioni per scrollarsi di dosso il grigiore della propria vita; ma, invecchiando e maturando, lo strapotere dell’immaginazione gli apparve sempre più un pericolo di superficialità, un’eccezionalità troppo facile, insomma un errore di conoscenza. Sempre di più lo affascinava la cosa-in-sé, la descrizione fenomenologica del mondo unita ai procedimenti mentali che rendono il mondo leggibile per noi; splendide nature morte, o paesaggi, che sono in realtà stati della mente, e viceversa. L’uomo non può sottrarsi al mondo fisico ma non è affatto detto che la realtà sia solida; la poesia è un ponte sull’abisso che separa la mente dall’incognita del mondo (“quando una poesia riesce, qualcosa che è diventato credibile subentra all’incredibile che è appena stato soppresso”)- né rigido realista né idealista soddisfatto, ma interessato alla composizione immaginaria del reale; come per i pittori a lui contemporanei, un paese o una donna filtrati dall’arte non sono una replica della realtà, ma una sua aggiunta.
Molti titoli di Stevens sembrano titoli di quadri; anche questo Donna al sole , solo che la donna non c’è, resta il sole. “It is only that”: l’attacco è conservativo, come se qualcuno gli avesse chiesto “è una donna quella che vedi?” e lui rispondesse “no, è solo che…” –il calore e il movimento che i sensi percepiscono in questa giornata estiva assomigliano al calore e al movimento di una donna. E’ una sensazione vaga e per questo tanto più evocativa: coi tre ripetuti “it is” all’inizio di tre distici consecutivi Stevens approfondisce con calma l’inafferrabile che conta. Non c’è un’immagine di donna nell’aria e nemmeno una forma, non siamo sciocchi preraffaelliti –c’è il vuoto, ma il vuoto non è il nulla perché formicola di possibilità. Il vuoto attira le due uniche metafore del testo: l’oro puro, compatto, in cui si ritaglia la donna immaginata, e lo sfiorare di lei che “brucia” al contatto (“brushing” non può non richiamare il “brush” e un rumore di sterpaglia che riconduce la donna a un’illusione naturale); dice us e non me –già nel suo primo libro aveva castigato la soggettività (“io sono ciò che mi sta intorno”). Ma la donna ci brucia anche con una “dissociata abbondanza d’essere”, v. 7 –cioè, direi, con una pienezza d’essere che non è limitata da nessuna singola esistenza, pur portando con sé un’idea di nettezza legata a quel che la donna è nella realtà –non una donna platonica dunque ma il ricordo-evocazione di una donna concreta.
Chi sarà questa donna? Forse la moglie, compagna di una vita; in un testo di pochi anni dopo l’immagine ritorna a sessi invertiti –è Penelope che in un sogno a occhi aperti si chiede “era Ulisse? O era solo il calore del sole / sul cuscino?” O forse è la madre, icona e fondamento; il calore familiare varrebbe per entrambe. Pur essendo “disembodied”, v. 9, porta con sé odori sensuali, campestri, felici: qual è l’origine di questa felicità? Nella poesia iniziale della raccolta Stevens parlava di un serpente velenoso e “bodiless”, come istituendo un’opposizione tra “bodiless” e “disembodied” –il serpente è “senza corpo” ma ha nostalgia dei corpi, è una forma che vuole ingoiare l’informe; la donna invece è “libera dal corpo”, disincarnata, e non ha bisogno di rapprendersi in nessuna forma. Il serpente è simbolo del desiderio insaziato e insaziabile, mentre qui siamo alla fine del desiderio. L’amore che la donna riconosce, ammettendolo, è ormai libero da ogni ansia di desiderio –profondo nel suo tacere eppure sublimemente indifferente come lo è la realtà, che nulla chiede all’uomo ed è semplicemente quella che è. Invisibilmente chiaro come è chiara la giornata di sole, forte come molte cose che non si vedono, si afferma come il solo vero amore che non teme frustrazione.
Quando scrive questa poesia, Stevens sta per compiere i settant’anni: l’età influisce sull’estetica della rinuncia. Necessaria rinuncia al possesso per arrivare finalmente all’accettazione senza fughe (“il sì del realista detto perché a ogni no era sottesa / una passione del sì mai venuta meno”). La parola (“only”) che all’inizio relativizzava la scena diventa alla fine l’unico possibile assoluto. Si è spesso accusato Stevens di essere troppo cerebrale e, nei poemi lunghi, verboso. Le parole per lui sono importanti perché costruiscono il mondo (“the word is the making of the world”, scrive giocando sul vangelo di Giovanni). L’astratto si mescola al concreto come il pensiero si mescola alla materia; il testo finito è una cosa, un fatto, non meno reale di una carezza o di una sedia. Qui, in questi distici dove nega il romanticismo appellandosi al procedimento tutto intellettuale delle analogie moderniste (“la donna blu”, scrive per un altro contesto, “è probabilmente il tempo che faceva una domenica mattina dello scorso aprile”), recupera nientemeno che l’amore eterno.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 5 ottobre 2014, p. 58